| chiudi la finestra |stampa |  

---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

 Attraversare il dolore
D. Carlo Molari (ROCCA 01/02/03)

Recentemente in una lista cattolica di Internet una dottoressa, raccontando le molte difficoltà della sua famiglia di origine ha ricordato le parole con cui la madre confortava i figli: «sia fatta la volontà di Dio; noi non conosciamo i progetti che il Signore ha fatto per noi; dobbiamo portare la nostra croce; se il Signore ci mette alla prova ci dà anche gli strumenti per affrontarla; l'unico vero scopo della vita è raggiungere il Regno di Dio». Ricordando, ora da adulta, quei giorni la Signora ha ammesso le molte resistenze incontrate nell'accogliere e vivere un insegnamento di questo tipo: «dentro di me contestavo, fino a provare rabbia, l'atteggiamento dimesso, rassegnato, apocalittico, rinunciatario di mia madre... Perfino quando all'età di 55 anni si ammalò di tumore al cervello e dopo un anno di sofferenze morì, continuò a confortarsi nel Signore. Mi diceva: «mi dispiace lasciarti che sei ancora piccola, ma non temere: chissà quali grandi progetti ha per te il Signore, perché più grande è la prova, più potente è il Suo aiuto». Divenuta matura anche nella fede ora ha compreso il valore dell'atteggiamento di sua madre, pur riconoscendo i limiti e l'insufficienza dei suoi modelli culturali. Ha concluso il racconto della sua esperienza con affermazioni molto diverse da quelle di sua madre, ma in continuità con lo stesso cammino di fede: «Il dono più grande che ho ricevuto è l'aver scoperto che Dio è solo e sempre amore... non è Dio che ci vuole fare soffrire o che ci manda le croci per metterci alla prova. Egli ci ha creato per essere felici come Lui... Non è vero che il Signore ci vuole rassegnati e sottomessi: ci vuole attori protagonisti della vita che ci ha donato; amandoci in modo incondizionato ci lascia liberi di fare le nostre scelte; come padre amorevole soffre con noi, gioisce con noi, piange con noi; quando cadiamo ci aiuta a rialzarci; e se ci comportiamo secondo i suoi insegnamenti è orgoglioso di noi». Può sembrare sorprendente come sia stato possibile giungere a conclusioni così diverse pur vivendo nello stesso orizzonte di fede cristiana. Ma in realtà la cosa è facile da spiegarsi. Da una parte l'esperienza di fede è più ricca e profonda delle immagini di Dio che l'accompagnano e delle ragioni con cui la giustifichiamo. Dall'altra i nuovi modelli teologici hanno consentito alla figlia di tradurre in modo più corretto la stessa esperienza del dolore che ha continuato a vivere anche nella professione medica. La verità della fede infatti si sviluppa solo attraverso l'esperienza che se ne compie e per essere espressa correttamente deve utilizzare modelli culturali coerenti con quelli della vita quotidiana.
Dio non vuole la sofferenza umana
Non è necessario insistere molto sull'affermazione che il dolore non è voluto da Dio né come punizione del peccato né come prova per saggiare la fedeltà umana. La sofferenza è conseguenza di un disordine e di una incompiutezza della creazione. Non è perciò un bene che impreziosisce la vita bensì un male destinato a scomparire dalla creazione, come è pensata da Dio e come si presenterà al termine del processo evolutivo. Tutte le descrizioni bibliche del regno futuro suppongono l'assenza del dolore. Della nuova Gerusalemme, «il nuovo cielo e la nuova terra», l'Apocalisse scrive: «Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno un popolo ed egli sarà 'il Dio con loro'. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più morte, né lutto né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap. 21, 3-4). La ragione è indicata con chiarezza nella promessa divina: «Ecco faccio nuove tutte le cose... Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (ib. 5, 7). Analogamente la compassione nei confronti di coloro che soffrono non deve essere indirizzata a far accettare il dolore come un dono di Dio o come l'espressione della sua volontà, ma a comunicare quella forza vitale necessaria perché il sofferente possa attraversare il suo dolore in modo positivo, o possa morire in modo degno di una persona umana. Il 'bacio di Dio' non è la sofferenza ma la consolazione che viene al sofferente dall'abbandono fiducioso in Lui. La preghiera del sofferente è quindi, insieme resistenza e abbandono fiducioso: resistenza per il male presente, abbandono fiducioso per interiorizzare quella ricchezza vitale che l'amore creatore è in grado di offrire, anche nelle condizioni più negative. Il dolore diventa ambito creativo, quando il sofferente è in grado di continuare ad amare per la forza vitale che scaturisce dall'abbandono fiducioso in Dio. Dio è perciò dalla parte delle vittime e dei sofferenti per aiutarli a uscire dalla loro condizione.
Sofferenza creatrice e redentrice
Questa verità si è imposta al mondo soprattutto attraverso l'esperienza di Gesù. La croce è diventata il luogo necessario per capire e vivere il dolore in modo salvifico. Nella croce infatti è apparsa la straordina­ria ricchezza vitale che l'amore, portato da Gesù agli estremi confini delle possibilità umane (amò sino alla fine Gv 13,1), è in grado di suscitare nel soggetto e di immettere nella storia. Essere salvati, infatti, non è tornare a uno stato originale di perfezione, bensì è raggiungere quella ricchezza vitale definitiva, quel compimento promesso nella tensione iniziale e compromesso in modo continuo dal peccato, che in Cristo risorto ci è stato presentato nella sua forma definitiva. Gesù rappresenta il momento storico in cui l'offerta creatrice di Dio all'uomo finalmente ha trovato un ambito in cui esprimersi in modo pieno, così da realizzare quella somiglianza, che in Adamo era stata appena delineata e che l'infedeltà di molti aveva a lungo ritardato. Gesù non ha eliminato il male dal mondo, né ha insegnato a distruggerlo, ma ha mostrato come portarlo in modo da svuotarne la forza distruttrice e da trarne, all'opposto, l'energia che salva. La grazia non elimina le situazioni negative, ma dona di viverle in modo da crescere come persone o come figli di Dio anche per mezzo di esse. La croce di Cristo perciò è diventata simbolo della sofferenza creatrice e redentrice. Quando è affrontata liberamente, in vista di un bene superiore, essa diventa l'ambito dove fioriscono nuove forme di umani­tà, in virtù della forza dell'amore. La sofferenza, in sé non appetibile, può essere desiderata solo come strumento della cre­atività umana, ma sempre nella consapevolezza della sua provvisorietà e dell'amore necessario per renderla redentrice. Se la croce si è prestata spesso a interpretazioni deformanti, il suo messaggio centrale è invece molto chiaro: quando è attraversata dalla grazia, la sofferenza diventa una spazio di creazione, un ambito dove la forza della vita può esprimere ricchezze nuove.
Due sono gli ambiti principali della creatività della vita: il primo riguarda lo stesso sofferente il secondo riguarda gli altri. Colui che soffre entra in crisi nella sua soggettività, viene privato della forza di essere, fino al rischio dell'annullamento. Il dolore, di qualsiasi tipo svuota la persona e tende ad annullarla. Non si pensi solo alla malattia o alla morte, ma anche alla calunnia, all'abbandono, all'emarginazione, al fallimento. Ogni sofferenza mette in crisi l'identità personale, perché la priva delle fonti della vita. Per questo è necessaria la solidarietà di tutti gli altri. La consolazione che scaturisce dalla vicinanza amorosa degli altri, conferisce all'ammalato la forza di essere se stesso. La solidarietà contribuisce a restituire certezza al sofferente che ha difficoltà ad essere se stesso La funzione della compassione in questo spazio è essenziale. Chi esercita amore nei confronti di chi soffre consolida l'identità del sofferente e gli consente di far emergere la propria vera realtà, quella che irrompe dall'interiorità profonda e apre al futuro. Solo in questo intreccio di relazioni vissute nella fede esplode in tutta la sua ricchezza quella forza che la Vita può esercitare solo quando tutte le presunzioni cadono e l'abbandono diventa totale.
Il secondo ambito di esercizio della potenza vitale sono gli altri. Quando una persona sa portare con forza la condizione di sofferenza, diventa una potenza di vita per tutti coloro con cui entra in rapporto. In lei l'energia vitale spinge all'esterno e suscita forza per molti altri. La consolazione che un sofferente è in grado di consegnare ad altri è di una particolare efficacia perché fiorisce dalla potenza creatrice esercitata negli spazi della debolezza umana. Chi ha incontrato una persona che ha sofferto, o che sta soffrendo, con piena fiducia in Dio, sa quanto amore può consegnare agli altri.