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 LA VITA SECONDO LO SPIRITO
Luciano Manicardi, monaco della Comunità di Bose
(da ESODO n. 4; ott-dic 2003)

Dalla rivelazione alla spiritualità
La rivelazione biblica è a struttura simbolica paterna. Che cosa significa questa affermazione? Che il rapporto Dio-uomo, secondo la Scrittura, trova la sua più pregnante analogia simbolica nel rapporto padre-figlio. Dio è Padre e si rivela, cioè precede e fonda l'esperienza che l'uomo può fare di lui. Dio si rivela nella storia e nel mondo, e pertanto storica e mondana (fedele alla terra) è la risposta umana alla sua iniziativa. Dio si rivela tramite la parola, suscitando così la risposta dell'uomo, dunque la sua responsabilità, e stabilendolo come soggetto, come libertà dialogante con lui. Dio comunica all'uomo mediante una parola che chiede ascolto e che chiama ad una relazione e ad una responsabilità da viversi nella storia e in una comunità.

Questa relazione non è indistinzione, non è fusione, ma comunione dinamica, traversata dall'assunzione dell'alterità, con Dio e con gli altri uomini. Dio si rivela attraverso la voce e la parola, in un rapporto di distanza con l'uomo, così come il padre si relaziona originariamente con il figlio mediante la voce. Simbolicamente siamo rinviati alla relazione del bambino che inizia il cammino di percezione dell'alterità grazie al padre, il terzo che si introduce nella relazione fra il piccolo e la madre, con la quale ha vissuto un periodo di inabitazione,di fusione simbiotica. Il credente è dunque anzitutto "colui che ascolta". E’ dall'ascolto, dice Paolo, che nasce la (Rom 10,17).

La preghiera centrale della liturgia ebraica, preghiera ripetuta quotidianamente dall'ebreo Gesù e dagli ebrei oggi, shemà Israel ("Ascolta, Israele"), preghiera che apre le labbra per chiamare il cuore e invitarlo ad intraprendere un itinerario che dall'ascolto va alla conoscenza e dalla conoscenza all’amore (Dt 6,4-5).

La rivelazione neotestamentaria, centrata sull'incarnazione, su Gesù Cristo, Parola fatta carne, fa dell'umano e del corporeo l’orizzonte imprescindibile dell’esperienza spirituale, dell'esperienza suscitata e guidata dallo Spirito di Cristo. Un'esperienza che nell’ascolto trova un elemento basilare. Si tratta ormai di ascoltare lui, il Figlio (Mc 9,7), e pertanto di mettere in atto una disciplina e un’ascesi dell'ascolto: occorre fare attenzione a ciò che si ascolta (Mc 4,24), a chi si ascolta (Ger 23,16; Mt 24,4-6.23; 2Tm 4,3-4), a come si ascolta (Lc 8,18). Perché noi siamo ciò che ascoltiamo.

Lo "spirituale" cristiano e la critica dello "spirituale"
In tempi di "ritorno del religioso", di "rivincita di Dio", di inflazione di spiritualità, di bulimia spirituale, è urgente chiarificare che cos'è lo "spirituale" cristiano e mettere in atto una critica dello "spirituale". Oggi, su questo argomento c'è confusione: sincretismi diffusi, New Age, spiritualità orientaleggianti, si accompagnano alla diffusa indistinzione tra psichico e pneumatico, tra affettivo e spirituale ("sento l'amore di Dio"), fra terapeutico e salvifico. L'esperienza spirituale (anche cristiana) rischia di divenire a-logica, senza parola, dunque senza limiti, senza distinzioni, e di ridursi all'emozionale.

Oppure, nel cattolicesimo nostrano "di base", il rischio è la riduzione di Dio a equivalente simbolico di una relazione altruista: l'importante è aiutare gli altri, fare il bene... Insomma: l'abominevole degradazione del cristianesimo al "socialmente utile". Per non dire del dilagare disordinato di un cristianesimo di visioni e apparizioni, taumaturgico e miracolistico, in cui il paradigma ottico sembra imporsi con la forza arrogante di ciò che non necessita della fatica dell'ascolto, dell'interpretazione, e non corre i rischi connessi all'avventura della fede.

Eppure noi sappiamo che, secondo i vangeli, non ci sono testimoni oculari neppure della resurrezione, e la tomba vuota diviene segno della resurrezione solo a partire dal rinnovato ascolto delle Scritture e dal ricordo delle parole di Gesù. Non si da fede pasquale fuori dall'ascolto delle Scritture: "Cristo è morto e risorto secondo le Scritture". Senza le Scritture, egli non può essere confessato come colui che compie il disegno di Dio, come il salvatore del mondo.

L'esperienza spirituale cristiana, che non assegna all'uomo come fine il benessere del sé, ma è sempre volta a condurre l'uomo all'uscita da sé per incontrare e conoscere la persona vivente di Cristo, trova nella Parola e nello Spirito i due criteri oggettivanti ineliminabili. E se lo Spirito "soffia dove vuole", esso sempre si accompagna alla Parola che agisce con chirurgica precisione, penetrando fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, impedendo così all’esperienza spirituale di dissolversi nelle nebbie della vaghezza e dell'indistinzione, ma guidando l'umanità di una persona alla conformazione all'umanità di Gesù Cristo. Di Cristo è infatti la parola e di Cristo è lo Spirito.

D'altra parte, la considerazione di questi fenomeni spirituali discutibili e dei movimenti che li favoriscono consente anche di prendere coscienza di alcuni elementi disattesi dalla spiritualità cristiana nei tempi recenti, Penso, tra l'altro, all'istanza dell’iniziazione ben visibile in gruppi spirituali e movimenti che sottolineano istanze di "catecumenato", di preparazione, di noviziato in vista di integrazione piena nel gruppo, della condivisione del "credo" comune. Ma penso in particolare all'esigenza di un coinvolgimento del corpo e e dei sensi nell’esperienza spirituale, dunque a quell’istanza che afferma che la vita spirituale non può che essere vita di tutto l'uomo, integralmente.

Già quarant'anni fa p. Louis Bouyer denunciava lo psicologismo come uno dei rischi più consistenti di deriva della vita spirituale. Ora, premesso che l'azione dello Spirito Santo non può prescindere dai movimenti dello spirito umano, dunque anche dalle dinamiche psicologiche ed emozionali della persona, tuttavia questa sottolineatura - che oggi corre certamente il rischio di essere à la page e abbisognerebbe di maggiore discernimento – può indicarci la via per ripensare la vita spirituale e per riformularla oggi in maniera fedele alla rivelazione scritturistica e alla tradizione cristiana.

Il "privilegio" dell'ascolto
"Noi camminiamo per mezzo della fede, non della visione" (2Cor 5,7). E’ indubbio il primato dell'ascoltare sul vedere nell’esperienza di fede che sgorga dalla rivelazione biblica. L'originarietà della parola di Dio che si rivolge all'uomo e lo cerca, situa l'esperienza spirituale nel quadro dialettico di "chiamata e risposta", non in quello della rappresentazione. Questa originarietà della parola divina dice che fondamento dell'esperienza spirituale è la volontà di Dio che si manifesta nel suo dare vita e creare, nel suo cercare l'uomo e volgersi a lui.

Nell'esperienza biblica della fede l'ascolto gode di una sorta di "privilegio", che consiste nello scoprire e nell'aprirsi a una presenza irriducibile all'ordine della percezione e della conoscenza, presenza che eccede l'uomo e che non è esauribile da ciò che egli ne può dire o dalle rappresentazioni che ne può fare. Il "privilegio" (se così ci si può esprimere) dell'ascolto risiede nel fatto che esso è per eccellenza il senso della conversione ("Ascoltate, e la vostra anima rinascerà": Is 55,3) e della relazione con il Signore, dell'alleanza ("Ascoltate la mia voce! Allora io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo": Ger 7,23).

Anche lo Spirito può essere accolto grazie all'ascolto: "Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese" (Ap 2,7).

Anche il silenzio, non solo la parola, può essere ascoltato, come appare nell'esperienza spirituale di Elia, quando il profeta seppe discernere la presenza di Dio nella "voce di un silenzio sottile" (2Re 19,12). L'ascolto converte il cuore rendendolo capace di accogliere una presenza altra, di ospitare una volontà altra. L'ascolto scava in noi uno spazio per ospitare un altro da noi e fare avvenire in noi qualcosa della differenza di cui l'altro è portatore. Per Paolo la fede fa abitare il Cristo nel credente: "Esaminate voi stessi se siete nella fede. Riconoscete che Gesù Cristo abita in voi?" (2Cor 13,5).

Ascolto e visione, sensi e spirito
Se vi è un "privilegio" dell'ascolto, tuttavia la Scrittura non stabilisce una contrapposizione tra l'ascolto e la vista. Al Sinai "tutto il popolo vide le voci" (Es 20,18 secondo il testo ebraico), e la tradizione ebraica può dire che la parola di Dio diviene visibile nel suo farsi Scrittura, nel suo farsi Torah. Vi è dunque sinergia tra vedere e ascoltare: la visibilità del mondo va ascoltata e l'ascolto illumina il visibile, rende visibile il mondo, e lo rende visibile con lo sguardo dell'accoglienza e della gratuità e non del possesso. La parola abita lo sguardo.

Nell'economia cristiana, la Parola si rende visibile nel suo farsi carne: nel Nuovo Testamento Dio si è dato a vedere in Cristo: ( “ chi ha visto me, ha visto il Padre" Gv 14,9). Certo, Dio resta non visibile, e per i cristiani nella storia anche Cristo resta non visibile, tuttavia la Parola, visibile e udibile nella Scrittura e lo Spirito, che tale Parola accompagna, guidano a discernere nella carne umana e nella storia la presenza di Dio. Ora, senza potermi troppo dilungare, mi pare che un difetto della spiritualità sia stato quello di avere troppo spesso opposto ascolto e visione, e più radicalmente ancora, sensi e spirito.

L'ascolto tende a inscrivere nel corpo, cioè nell'uomo intero e in tutte le sue relazioni, la Parola divina. Questa è la logica dello shemà Israel (cf. Dt 6,4-9: i comandi di Dio devono stare non solo fissi nel cuore, ma anche legati alla mano, appesi come pendaglio fra gli occhi, scritti sugli stipiti delle porte, ripetuti ai figli, proclamati in casa e lungo la strada, al momento di coricarsi e al momento di alzarsi…) che si oppone a ogni separazione tre interiorità e sensibilità, e che cerca di raggiungere l'uomo in quanto tale, nella sua corporeità come in tutti gli ambiti del suo vivere: familiare, sociale, politico. Rabbi Shneur Zalman di Ladi afferma: "Se la Torah è fissata nei centoquarantotto organi del tuo corpo, la custodirai; altrimenti la dimenticherai”.

Il cristianesimo poi, con l'incarnazione, rivela che il corpo umano e il luogo più degno di dimora di Dio nel mondo, e afferma di fatto la connivenza profonda tra il sensibile e lo spirituale, tra i sensi e lo spirito, tra il corpo dell'uomo e lo Spirito di Dio. Dio è narrato dall'umanità di Gesù di Nazaret.

Così la rivelazione biblica non oppone visione e ascolto, ma si sforza di pensarli insieme (e nella Bibbia al comando di tendere l'orecchio si accompagna quello di alzare gli occhi), non mette in contrapposizione i sensi e lo spirito, ma afferma l'essenzialità dei sensi per l'esperienza spirituale.

Di contro a ciò, troviamo nella tradizione cristiana, soprattutto nelle sue espressioni "mistiche", una spiritualità dell'interiorità che si oppone radicalmente al piano della sensibilità: secondo Giovanni della Croce, per giungere "all'unione perfetta con il Signore, per grazia e per amore", l'anima deve essere "nell'oscurità in rapporto a tutto ciò che l'occhio può vedere, l'udito ascoltare, l'immaginazione rappresentare e il cuore percepire".

Perché, invece, non prendere sul serio quell'affermazione dell'antropologia biblica unitaria, che rischia di ridursi a slogan tanto ripetuto quanto disatteso? Perché non pensare che fra interiorità e sensibilità non vi è opposizione, ma scambio e interazione in cui "l'una dimensione prega l'altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé"?. È attraverso i sensi che il mondo fa esperienza di noi, ed è attraverso i sensi che noi facciamo esperienza del mondo. Possiamo dire che vi è un infinito mistero in ogni senso: nella vista, nel tatto, nell'olfatto, nel gusto, nell'udito. Mistero afferente all'alterità che dall'esteriorità e tramite i sensi giunge a noi, ci ferisce, ci inabita.

I sensi hanno dunque a che fare con il senso: lì si cela la loro attitudine intrinsecamente spirituale. Noi entriamo nel senso della vita attraverso i sensi. Il senso del mondo non è estraneo ai sensi attraverso cui il mondo stesso viene colto ed esperito da noi: il significato di un fenomeno - ci dicono i fenomenologi - è inseparabile dall'accesso che vi conduce. Il corpo, che noi siamo ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Il corpo ci ricorda l'evento e la realtà "spiritualissima" per cui ciò che noi siamo, sta nello spazio di una relazione, è dono.

Noi siamo dialogo, ci dice il nostro corpo. Il corpo è la nostra obbedienza originaria e il nostro compito fondamentale. Il corpo è appello e chiamata, in esso è insita una parola, una vocazione. Il corpo è apertura allo spirito: nulla di ciò che è spirituale avviene se non nel corpo.

I Salmi sono la migliore espressione della preghiera della sensibilità. "Il fragile strumento della preghiera, l'arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il Salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perche l'anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di mormorio, sussurro. Il corpo è il luogo dell'anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. E’ il corpo stesso che prega: Tutte le mie ossa diranno: chi è come te, Signore? (Sal 35,10)".

Pregare, per il Salmista, è anche dire il proprio corpo davanti a Dio. Pregare i Salmi, per noi, è anche fare memoria che la vita spirituale non è un'altra vita, ma questa vita, questa unica vita che è la nostra, questa vita del corpo che noi siamo, questa vita vissuta sulle tracce dell'umanità di Gesù che ci umanizza, che ci insegna a vivere (Tt 2,12).

Certo, i sensi devono essere risvegliati. destati, purificati, perchè sono sempre a rischio di idolatria: la vista dovrà sempre restare aperta all'invisibile, l'ascolto dovrà sempre stare al cospetto del non detto e dell'ineffabilie… Anche l'ascolto, infatti, non solo lo sguardo può divenire idolatrico: quando l’orecchio s'impadronisce della parola divina come di una parola che non chiama, ma conferma, non interpella, ma garantisce, che non scuote e non mette in crisi, ma rassicura, che non pone in cammino, non fa uscire per un esodo ma stabilizza e arresta, allora siamo di fronte a un ascolto idolatrico.

Certo, la Scrittura e la tradizione cristiana ci parlano di sensi spirituali: occhi del cuore, orecchio del cuore, ma i sensi nella loro materialità sono ciò che ci mantiene aperti all’alterità mantenendoci aperti all'esteriorità. E’ attraverso l'esteriorità e l'alterità cui i sensi danno accesso che noi non ci rinchiudiamo in una spiritualità intimista, individualista e di mera interiorità. I sensi sono la via sensibile all'alterità. Certo, essi possono chiudersi e intontirsi: la Bibbia (e Gesù stesso) parla di occhi che guardano ma non vedono, di orecchi che non ascoltano, di cuore indurito, ecc. Per svolgere la loro funzione spirituale, i sensi devono essere tenuti vivi attraverso l'attenzione e la vigilanza. Allora essi saranno la memoria del carattere spirituale del corpo e della santità della carne.

La vita spirituale cristiana
È a questo punto che possiamo cogliere nel battesimo la figura della vita spirituale cristiana. All’ingresso di alcuni antichi battisteri si trova la scritta: janua vitae spiritualis (“porta d’ingresso per la vita spirituale”). Il battesimo significa così l’inizio, l’introduzione nella vita secondo lo Spirito. Analogo è il senso dell’espressione fons vitae (‘fonte della vita’).

Il battesimo vuole significare l’illuminazione dell’umano a opera dello Spirito di Cristo, e anche il risveglio dell’umano grazie all’atto di rivestire Cristo simbolizzato dall’immersione del corpo dell’uomo nelle acque e dalla sua riemersione da esse: simbolico passaggio dalle tenebre alla luce, dalla morte alla vita. Illuminazione e risveglio sono le operazioni che appaiono connesse al battesimo già nel Nuovo Testamento: “Quelli che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito santo” (Eb 6,4; cf. Eb 10,32); “Svegliati, tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14).

Il rito battesimale conservatoci in un antico sacramentario (VI sec. d. C.) sottolinea la fisicità del coinvolgimento del battezzato con il Cristo, e dunque di questa illuminazione e di questo risveglio: “Io ti segno nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, perché tu sia cristiano; gli occhi, perché tu veda la luce di Dio; le orecchie, perché tu oda la voce del Signore; le narici, perché tu senta il soave odore di Cristo; le labbra, perché, una volta convertito, tu confessi il Padre e il Figlio e lo Spirito santo; il cuore, perché tu creda la Trinità indissolubile”.

L’esperienza di Cristo, che è sempre esperienza di fede, è anche ed essenzialmente esperienza dei sensi. La vita spirituale cristiana è allora la vita del battezzato tout-court, è la vita cristiana, è l’immersione in Cristo e la conformazione a Cristo dell’umano dell’uomo. Senza possibilità di comparti stagni e di dicotomie, ma assumendo la vigilanza come la matrice di ogni virtù, in quanto essa tiene desti i sensi e li orienta illuminandoli con l’attenzione alla presenza di Cristo.

L’attenzione (ad-tendere) è un’attiva tensione che costituisce il fondamento interiore dell’agire umano e dell’esperienza del mondo che l’uomo fa. La vigilanza è così il tessuto connettivo che consente all’uomo intero — spirito (pneuma), anima (psyché), corpo (sòma), per riprendere la formulazione antropologica tripartita presente in Paolo (cf. lTs 5,23) — di unire “spirituale” e “umano” in una vita che sia presenza lucida dell’uomo a se stesso e a Dio, agli altri e alla storia. L’uomo vigilante è l’uomo lucido, che si impedisce l’ottundimento dell’intelligenza e dei sensi, che rigetta l’indifferenza e assume la responsabilità della fede che è sempre anche responsabilità del l’umano che è nell’uomo: in sé e negli altri. Si comprende allora l’insistenza neotestamentaria sull’esigenza della vigilanza (“Vigilate e pregate!”; “Siate sobri, vigilate”; “Siate pronti, siate vigilanti”; ecc.) e il fatto che la tradizione cristiana abbia dichiarato che essa è il fondamento indispensabile della vita spirituale.

“Non abbiamo bisogno di nient’altro che di uno spirito vigilante”, dice abba Poemen, e Basilio conclude le sue Regole Morali - una serie di regole di vita cristiana che egli intese rivolgere a tutti i cristiani - con la famosa pagina in cui elenca “ciò che è proprio del cristiano”, e dove l’ultimo elemento ricordato, quello su cui grava tutto il peso dell’intera vita cristiana, è la vigilanza: “Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, ed essere pronto nel compiere perfettamente ciò che è gradito a Dio, sapendo che nell’ora che non pensiamo, il Signore viene”. Dove la vigilanza appare non solo ciò che rende lucido e sveglio il corpo dell’uomo e i suoi sensi (essa si oppone all’ubriachezza, alla sonnolenza, alla distrazione, all’intontimento dei sensi e all’appesantimento del cuore), ma anche ciò che ordina il tempo della vita del credente grazie all’attesa della venuta di Cristo. La vigilanza tiene desta la coscienza del carattere spirituale dei sensi e del corpo, chiamati a incontrare Cristo, e di quella che potremmo chiamare l’umanità della fede.

Divenire umani a immagine di Dio
Alla luce di quanto detto, possiamo affermare che la vita spirituale cristiana può essere così sintetizzata: Dio si è fatto uomo perché anche noi diventiamo uomini e perché umanizziamo la nostra umanità. Dio si è fatto uomo perché noi diventiamo uomini a sua immagine e somiglianza. Non è difficile mostrare come tutto l’Antico Testamento, nelle sue tre componenti della Legge, della Profezia e della Sapienza, miri a umanizzare l’uomo.

Molte leggi hanno una valenza simbolica che non tende direttamente al buon funzionamento della società, ma solo all’umanizzazione delle persone. Così le leggi che cercano di aprire il cuore dell’uomo alla situazione di bisogno dell’altro uomo (Es 22,25-26), che vogliono destare l’attenzione verso il povero e il bisognoso (Lv 19,9-10), che ricordano le istanze di giustizia e di risarcimento (Es 22,4; Ez 21,37). Così il comando, ripetuto tre volte (Es 23,19; 34,26; Dt 14,21), che proibisce di cuocere un capretto o un agnello nel latte della madre: esso tende a riportare l’uomo al senso di pietà di fronte a una madre e al suo piccolo (cf. anche Dt 22,6-7).

Quando Gesù radicalizza la Torah e i comandi dell’Antico Testamento (non uccidere, non commettere adulterio...) chiedendo il rispetto dell’altro e la purezza dello sguardo e del cuore, non fa che proseguire questa opera di umanizzazione dell’uomo.

Quanto all’esperienza profetica, essa non consiste nell’estasi (come riteneva Filone di Alessandria): l’idea dell’estasi cela il principio per cui ciò che è inaccessibile all’uomo nel suo stato di coscienza, gli viene concesso nello stato di ebbrezza, di incoscienza. Ma questo principio, che di fatto afferma che maggiore è la presenza di Dio là dove meno c’è dell’umano, è estranea alla concezione biblica. L’esperienza spirituale del profeta lo porta non a interessarsi ai misteri del cielo, ma agli affari del mercato, non a volgersi alle realtà spirituali dell’al di là, ma alla vita del popolo nelle sue dimensioni sociali, politiche, economiche... Ciò che l’orecchio del profeta percepisce è la Parola di Dio, ma ciò che la Parola di Dio contiene è la sollecitudine di Dio per l’uomo e per il mondo.

Il Gesù profeta è colui che rivendica il primato dell’uomo e dell’umano sulle istituzioni e sulle leggi, fossero pure sacre come il sabato o le tradizioni ricevute dagli anziani (Mc 2,27; Mt 5,21-48). Nella Sapienza si afferma addirittura il diritto dell’esperienza umana a vagliare e criticare le affermazioni teologiche (come, nel caso di Giobbe, la teoria della retribuzione).

Se l’esperienza umana ha acquisito un’importanza tale nell’Antico Testamento da divenire un cardine del Canone biblico, dunque della rivelazione di Dio, è perché “le esperienze del mondo erano sempre, per Israele, esperienze di Dio e le esperienze di Dio erano sempre esperienze del mondo”. Ecco allora Qohelet, che prende sul serio la sfida che la morte costituisce per l’uomo; ecco il Cantico dei Cantici, che pone l’esperienza erotica, l’esperienza umanissima dell’amore tra uomo e donna, nella sua materialità, nella sua dimensione sessuale, come esperienza divina: ciò che è divino nel Cantico (in cui il nome di Dio è praticamente assente) è la relazione fra gli amanti, il loro dialogo amoroso, il loro dirsi e il loro darsi reciprocamente; ecco Proverbi e Siracide, che presentano la lezione del quotidiano come grande luogo teologico. E come dimenticare il Gesù sapiente che nelle parabole assume la realtà quotidiana, le realtà umane e attraverso di esse narra Dio?

Insomma, compimento della Scrittura, compimento della volontà di Dio, è l’umanità di Gesù Cristo. Alla scuola di Cristo la vita spirituale cristiana si configura così in maniera precisa: “Essere cristiano è diventare uomo in verità, seguendo Cristo; è cristiano chi diventa uomo” (Denis Vasse).

La lezione di Bonhoeffer viene a proposito: Essere cristiano non significa essere religioso in un determinato modo, fare qualcosa di se stessi (un peccatore, un penitente o un santo) in base a una certa metodica, ma significa essere uomini; Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo. Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prender parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo”. E ancora: “Il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, così come Gesù era uomo... Si impara a credere solo nel pieno essere-aldiqua della vita. Quando si è completamente rinunciato a fare qualcosa di noi stessi — un santo, un peccatore pentito o un uomo di chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano -, e questo io chiamo essere-aldiqua, cioè vivere nella pienezza degli impegni, dei problemi, dei successi e degli insuccessi, delle esperienze, delle perplessità — allora ci si getta completamente nelle braccia di Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma le sofferenze di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e, io credo, questa è fede, questa è metànoia (conversione), e così si diventa uomini, si diventa cristiani’.

Aprirsi al dolore di Dio nel mondo significa anche destarsi all’umano sofferente o oscurato nella persona malata, oppressa, schiacciata dal dolore, significa cogliere la passione di Dio nella sofferenza dell’umano che è nell’uomo. E divenirne responsabili mettendo in atto “una spiritualità che combatta il male”. E che combatta il male con-soffrendo con chi è nel dolore: la com-passione vuole sottrarre la sofferenza dell’altro alla disperazione della solitudine e dell’abbandono.

Parlare dell’umano che è nell’uomo significa affermare che l’umanità è dono e compito per l’uomo e che vi è la possibilità di un’umanità inumana, che si disumanizza. La spiritualità cristiana chiede al credente di pensarsi ospite — non padrone — dell’umano che è in lui e in ogni uomo. E gli chiede di aver cura di questo umano, di svilupparlo e nutrirlo. Alla luce della rivelazione biblica circa la creazione si può pensare questo umano come il luogo della nostra immagine e somiglianza con Dio. Allora il nostro divenire uomini è obbedienza alla parola del Dio creatore: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gen 1,26). Siamo implicati in quel “noi”. Quel ‘facciamo” destina l’uomo a una sinergia con Dio, che il cristiano vive come adesione alla persona di Gesù Cristo e come acquisizione del suo Spirito e docilità ad esso, e lo spinge a far avvenire in sé quell’umanità che è il vero luogo di Dio nel mondo. Un luogo divenuto persona in Gesù Cristo.

“Dio ci incontra nell’esistenza di Gesù Cristo, nella sua libertà. Egli non vuole essere senza l’uomo, bensì con lui e, nella stessa libertà, non contro di lui, bensì per lui. Egli vuole essere il partner dell’uomo e il suo misericordioso salvatore. Egli decide di amare proprio lui, di essere proprio il suo Dio, il suo Signore, il suo Dio misericordioso, il suo salvatore per la vita eterna. In questo atto divinamente libero di volere e di scegliere, in questa sovrana decisione, Dio è umano. La sua libera affermazione dell’uomo, la sua libera partecipazione alla sua esistenza, il suo libero intervenire per lui: questa è l’umanità di Dio”.

Questa umanità di Dio è narrata e vissuta da Gesù Cristo, e noi la incontriamo condividendo il respiro di Cristo: il suo Spirito. Quello Spirito che testimonia al nostro spirito che noi siamo figli di Dio (Rm 8,16) e che rende possibile il nostro rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre, Abbà” (Rm 8,15; Gal 4,6). Sì, Dio si è fatto uomo perché l’uomo divenga umano a immagine della sua umanità, umanità che noi contempliamo nella vita di Gesù Cristo. A questo ci guida lo Spirito santo. Questa la vita spirituale cristiana.

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