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I dodici volti di Dio
Daniele Garota

(per gentile autorizzazione dell'autore e della Redazione di Koinonia)
 

12. ALFA E OMEGA: IL PRIMO E L’ULTIMO

 Forse potenza e umiliazione in Dio possono essere espressi da due significati, entrambi santissimi sebbene opposti, di uno dei titoli con cui la Scrittura sacra ci fa conoscere il Signore: “l’ultimo”.  Dio è “ultimo” perché “redentore” e perché, essendo anche il “primo”, è capace non solo di rendere “noto il futuro dal tempo antico” (Is 44,6), ma anche di salvare il mondo e la storia. La fede dice che il Signore “presto” verrà per “rendere a ciascuno secondo le sue opere”, essendo egli “l’Alfa e l’Omèga, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap 22,12-13).
Ma Dio è l’ultimo anche per avere egli deciso di scendere tra noi come ultimo tra gli ultimi, umiliando “se stesso facendosi obbediente fino alla morte / e a una morte di croce” (Fil 2,8). La domanda del Cristo che muore è una domanda ai limiti della sopportabilità e della fede, sempre più simile a quella che attanaglia i credenti dell’ultima ora del mondo e della storia: perché Dio ci ha abbandonati? Dov’è Dio? Ed è certamente domanda che può essere espressa soltanto all’interno della fede e da chi considera ancora Dio come ultima possibilità di salvezza per sé e per il mondo. Di quel mondo che egli “ha tanto amato … da dare il Figlio unigenito” affinché “il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17).
Ma Dio è da considerare ultimo soprattutto per la sua potentissima capacità di portare novità assoluta, il mai visto prima tra noi. Questo è il motivo per cui “il Figlio” viene, non ritorna, sebbene nel cristianesimo si annunci che a venire è “il Figlio” già venuto, colui che è morto e risorto duemila anni fa. E viene perché il tempo della storia sempre procede in avanti verso il futuro, incessantemente. La storia non torna mai indietro sebbene il Dio ultimo sia tale proprio perché è anche il primo e perciò in grado di conoscere e tenere nella propria memoria quel passato che salverà nell’ultimo giorno. “Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso” (Qo 3,15). Così che tutto e, insieme, nulla sarà come prima dopo la venuta del Dio ultimo.
I credenti tuttavia, dimenticano facilmente non solo il passato ma anche le promesse che riguardano ciò che ci sarà dato per ultimo, preferendo aggrapparsi a ciò che è presente e penultimo, preferendo l’impegno etico qui e ora, l’estetica del rito che consolida, l’impegno per “pace e sicurezza!” (1Ts 5,3). Perché? Perché, da “gente di poca fede” (Mt 8,26), se ne ha in qualche modo paura. La novità ultima infatti, non è a buon mercato: il “vino nuovo” richiede “otri nuovi” (Mt 9,17), la rinuncia alla “propria vita” (Gv 12,25). Perciò le cose ultime, così come tutto ciò che è novità mai veduta prima, richiedono una fede che è “come il salto dell’animale predatore sulla sua preda” dice Kierkegaard (L’istante), come il bussare insistente e instancabile di una vedova affamata di giustizia alla porta del giudice, una fede della quale “il Figlio” stesso teme di non trovare più traccia venendo “sulla terra” nell’ultimo giorno (Lc 18,1-8). Perciò il Dio ultimo non potrà che venire “d’improvviso”, come “un ladro di notte” (1Ts 5,1-3), quando nessuno se l’aspetta. Dio alla fine farà l’impossibile, l’inimmaginabile, Dio vincerà la morte per sempre, risusciterà i morti, salverà il passato.
Il Dio ultimo è potentissimo proprio perché è ultimo e perciò nulla avendo prima, sopra e dopo di lui. È per questo che il Dio ultimo, è anche il Dio del vero inizio, colui che ridona la vita a chi è morto, che salva la creazione e la storia sigillandole col suo potentissimo gesto di giudizio e salvezza.
Ma c’è forse bisogno di un Dio? Non c’è già abbastanza novità che ci si para quotidianamente davanti ai nostri occhi moderni? Come non avere l’impressione di trovarci ogni volta di fronte all’inedito, grazie alla spinta poderosa del progresso? E tuttavia, non è forse questo il vero motivo per cui c’è bisogno di un Dio per salvarci?
Heidegger, nella famosa intervista che rilasciò allo Spiegel quasi una quarantina d’anni fa e uscita in italiano col titolo: Ormai solo un Dio ci può salvare, diceva di essere rimasto impressionato, “spaventato”, nel vedere per la prima volta “le fotografie della Terra scattate dalla Luna”. Vi intuiva uno “sradicamento” dell’uomo dalla terra tramite la potenza della tecnica, uno sradicamento che, pur percependolo in tutta la sua gravità, ci manca la forza di pensarlo, mentre vi è come “la fine di tutto”, insieme all’impossibilità che persino “il pensare e il poetare” riescano ad avere una qualche forza per rimediare all’ultimo momento. “La filosofia” non può e non potrà fare più nulla e nemmeno lo potrà “tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai – concludeva Heidegger – solo un Dio ci può salvare”. Un Dio però che può essere pensato solo all’interno “dello stesso luogo del mondo nel quale è sorto il moderno mondo tecnico” e non altrove, magari “tramite l’assunzione del buddismo zen o di altre esperienze orientali del mondo”.
Ma se è così, se persino un filosofo è costretto a tirare in ballo Dio e la salvezza, allora come possiamo concepire tale Dio e tale salvezza se non tramite “quel pensiero che ha la stessa provenienza e la stessa destinazione” di cui siamo parte, e cioè quelle che hanno a che fare con la “tradizione europea”, e dunque con le radici ebraico-cristiane, le stesse che hanno dato vita alle potenze di scienza e tecnica? Se vola un aereo e se ci colleghiamo a parole, suoni e immagini in movimento, simultaneamente e per tutto il pianeta, è perché qualcosa o qualcuno ci ha messo nella testa e nel cuore l’idea di salvezza, la non rassegnazione all’isolamento, al male e alla morte. L’ultimo Dio rimasto a poterci salvare, del quale anche Heidegger intuì la necessità estrema, è il Dio di Gesù Cristo, il Dio senza il quale la modernità di cui siamo parte è impensabile, inconoscibile, indecifrabile.
Un Dio di cui possiamo però ora soltanto fare cenno tramite memoria e pensiero, fede e speranza, poiché è un Dio che ancora non c’è e di cui abbiamo solamente udito qualcosa, un Dio che, sebbene abbia promesso di venire “presto!”, com’è scritto nel penultimo versetto dell’ultimo libro della Scrittura sacra (Ap 22,20), ha già tardato tanto, e potrebbe addirittura venire, come intuì il cuore di Franz Kafka, “soltanto quando non ci sarà più bisogno di lui” e, dunque, “solo un giorno dopo il proprio arrivo” non perciò “all’ultimo giorno, ma all’ultimissimo” (Quaderni in ottavo, III).
Intanto la morte, la nostra soprattutto, quella che dovremo prima o poi affrontare se il Signore non dovesse venire prima, è per noi nulla di meno che “la fine del mondo e la fine della storia – come ha detto in pagine profondissime Vladimir Jankélévitch –, è veramente una negazione assoluta e suprema… Il carattere ultimo della morte non è relativo ma assoluto, ed essa esclude di conseguenza ogni ulteriorità… A partire dalla profezia di Ezechiele, che annuncia la risurrezione dei morti, e dal Giudizio universale, la morte avrebbe effettivamente l’ultima parola: solo il Giudizio ultimo sarebbe più ultimo di questa parola finale della morte” (La morte).
Chi ha portato al mondo e alla storia il Dio delle cose ultime, del Giudizio ultimo, è Israele, il popolo che ha camminato fedelmente con Dio e, qualche volta, persino davanti a Dio, come ha fatto notare Neher. Già la parola “ebreo” del resto, così tante volte usata per insultare e perseguitare, cos’altro porta nell’intimo se non il nome stesso di Dio? “Se guardiamo il termine ebraico yehudah (giudeo) - dice Marc Alain Ouaknin – è formato da cinque lettere (yod, he, waw, dalet, he). Sono proprio le quattro lettere del Tetragramma, con l’aggiunta della lettera dalet. Quest’ultima lettera, in ebraico, significa ‘porta’, il dalet è come la porta d’entrata nelle parole. Essere yehudah significa, letteralmente, ‘mettere una porta nel nome Tetragramma’. Essere ebreo, significa rapportarsi a Dio non come Egli è in sé, ma in quanto tetragramma, YHWH”. Entrare cioè “in un tempo che non accetta ‘l’adesso’. Significa aprire la porta del presente, scardinarla, per proiettarsi incessantemente nel passato e nel futuro. Essere ebreo significa portare le tre dimensioni del tempo: passato, presente, futuro, ossia la memoria, la vita, la speranza. Per l’ebreo, ‘essere’ significa ‘divenire’ e non stabilizzarsi su una identità, sul ‘medesimo’ (Le Dieci Parole). L’ebreo è sempre in cammino, sempre in esilio, sempre aperto al futuro, fino all’ultimo giorno, come il suo Dio del resto. Solo gli idoli, e chi li adora, sono fissi e immobili nel presente, senza memoria né futuro: segno distintivo della fede di Israele è la promessa, l’attesa del Messia.
Per questo - dice Margarete Susman in un suo straordinario libretto - “l’unica domanda che verrà posta dal giudice celeste a ogni anima che comparirà davanti a lui suona, secondo un’espressione del Talmud: ‘Hai sperato nella salvezza?’”. Tutto dipende dal desiderio che si ha di quella salvezza che il Dio ultimo ci ha promesso per l’ultimo giorno.
Israele è unico e ultimo come unico e ultimo è Dio, unico e ultimo nel suo soffrire per tutti, per la salvezza del mondo. Alla domanda urlata del Golgotha Israele ha fatto eco con quella altrettanto urlata delle vittime mute di Auschwitz. È per questo che “il destino del popolo ebraico – dice la Susmann - è ogni volta un nuovo venir-scaraventato ai limiti, a partire dai quali nella lotta per la sua vita deve necessariamente lottare per il senso di ogni vita. E con ciò la forza che non lascia perire questo popolo, che sempre di nuovo lo ricostringe a vivere, si svela essere l’opposto della forza vitale naturale; si rivela invece come la forza di quell’ultima verità, nascosta all’essere come al pensiero, di cui la perdizione e la morte hanno avuto sentore. Solo ai limiti della vita e del poter-vivere sgorga la fonte di questa verità; solo dai limiti il popolo ebraico riceve la sua inaudita forza di vivere e di sopportare. E questo fluisce a lui dalla sua origine. Lo stesso ‘Ascolta Israele’ non è altro che il costante grido sul limite” (Il Libro di Giobbe e il destino del popolo ebraico). Dal Dio d’Israele viene l’inaudita promessa che i morti risorgeranno e l’incessante invocazione del Giudizio ultimo. Giobbe sente, dopo tutto, vivo e forte il suo “redentore” che, “ultimo si ergerà sulla polvere!” (Gb 19,25).
Il Dio ultimo è più potente del primo, il Dio giudice e redentore è più potente del Dio creatore, perché fare giustizia e salvare quel che è stato è molto di più che dare origine dal nulla. Il fatto di ricevere la propria vecchia vita come nuova con tutti i tratti di ciò che è stato e che si era con terrore temuto di perdere per sempre è molto di più che avere ciò che non si è mai perduto né temuto di perdere. È il miracolo dell’amore e del dolore, il miracolo della consolazione, quello che conosceranno quanti hanno sofferto e atteso una mano che li sollevasse, quanti sono stati capaci di avere “fame e sete della giustizia” (Mt 5,6) non solo per sé, ma anche per coloro che gli hanno sofferto accanto. Così ha fatto Dio amandoci, assumendo su di sé il peso del dolore e della morte, il peso dell’attesa.
Alla prima parola, a quel “Verbo” senza il quale “nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1,1-3), corrisponderà l’ultima parola, quel “Verbo di Dio”, sul cui “mantello intriso di sangue” è “scritto un nome: Re dei re e Signore dei signori” (Ap 19,13-16). Il sangue del Cristo è una cosa sola con quello dei martiri suoi testimoni, che incessantemente gridano a lui: “Fino a quando?” (Ap 6,9-10).
L’amore (agàpe), una volta che s’è acceso nel cuore, non avrà mai fine (1Cor 13,8). Il Dio ultimo è il Dio della consolazione e dell’amore, il Dio delle cose ultime e del “per sempre” (Is 66,22;1Ts 4,12).

(fine)