Gli
operai sono ricomparsi in prima pagina. Il
referendum alla Fiat di Pomigliano li ha
posti al centro. Lo scenario era predisposto
per sancire la svolta epocale. “Dopo
Cristo”, diceva Marchionne, per indicare un
nuovo inizio nelle relazioni industriali,
con l’eliminazione del conflitto e
l’assoluto dominio padronale. Da tutte le
parti si soffiava per l’unica razionalità
possibile: il Sì incondizionato alle
richieste aziendali che inaspriscono le
condizioni di lavoro e impongono deroghe a
diritti costituzionali come sciopero,
malattia e permessi elettorali.
Invece
oltre il 36% ha detto No. La prevalenza dei
Sì è una vittoria, ma una vittoria amara.
L’obiettivo, infatti, era il plebiscito a
favore, che sancisse la morte di ogni
opposizione. Doveva diventare un simbolo,
come 30 anni fa la marcia dei 40mila a
Torino. Avrebbe ispirato altre replicazioni
anche nelle fabbriche del nord. Invece il
consenso pieno è mancato, anzi, si è
rovesciato nel suo contrario.
Il
messaggio dei No è chiaro. Il lavoro umano
ha una sua dignità e va difesa, anche in
tempi di crisi, sfidando i ricatti più neri
e i poteri più forti. Al fondo è brillata
una resistenza etica: il rifiuto dell’umano
alla sua robotizzazione e liquidazione. È un
messaggio universale. Che vale anche per
tutte le situazioni di lavoro in cui è già
in atto quanto viene preteso a Pomigliano.
Il No è
anche un messaggio politico contro chi vuole
eliminare i contratti nazionali di lavoro
(senza i quali si riduce la quota
globalmente destinata ai salari e aumenta la
disuguaglianza all’interno degli stessi
lavoratori) e contro il governo pronto a
sfruttare l’occasione offerta dalla Fiat per
aggredire la Costituzione italiana, anche
sul fronte del lavoro.
Recentemente la Confindustria ha dichiarato
che per l’industria italiana “il peggio è
passato” e “l’economia italiana è fuori
dalla recessione”, contestualmente però i
disoccupati hanno raggiunto il 9,1% e nel
2011 potrebbero salire al 9,6%. In realtà,
già da ora, includendo cassintegrati e
ridotti a part-time, la quota che cerca un
nuovo lavoro supera il 12%. Giovani (30%
disoccupati) e donne (al sud 43,6%
disoccupate) sono i più colpiti. L’esercito
dei precari, condannati alla totale
invisibilità, continua a crescere ed è
pagato dal 20 al 30% in meno di coloro che
hanno un contratto a tempo indeterminato,
con molte più probabilità di perdere il
posto di lavoro, secondo le analisi di Tito
Boeri.
La
tecnologia consente di produrre più
ricchezza, riducendo il lavoro umano. La
crisi finanziaria ha fatto emergere la
fragilità di un sistema di sovrapproduzione
che si è sviluppato a partire dagli anni
’90. È un problema epocale che va
affrontato. Anche in termini di
redistribuzione della ricchezza. Non certo
ricorrendo alla barbarie di quel nichilismo
che spreme la vita delle persone,
riducendole a macchine senz’anima.
Già nel
1982 il card. Martini parlava dello scontro
frontale tra due logiche: quella del
“modello tecnicista nell’ottica quantitativa
dell’avere” e quella che fa riferimento al
“cuore” dell’uomo. Lo scontro è pienamente
in corso.