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Amore del nemico nei Salmi?
Gianni Barbiero
(da HOREB gennaio-aprile 2002)

Il punto di domanda è d’obbligo. Se infatti leggiamo i Salmi nel testo integrale (i Salmi del breviario sono stati purgati” delle parti più offensive per la sensibilità cristiana) sorprende la durezza con cui si parla dei nemici. Chi legge Salmo 109,6-20 o 137,7-9 non potrà certo parlare a cuor leggero di “amore dei nemici”. Solo Gesù Cristo rivela in pienezza questa dimensione dell’amore, lui, l’agnello di Dio, che porta su di sé i peccati del mondo: l’amore dei nemici è il suo nuovo comandamento (Mt 5,38- 48). Ma l’immagine stessa dell’agnello proviene dall’Antico Testamento (cf Ger 11,19; Is 53,7), e Gesù non è venuto per abolire, ma per adempiere (Mt 5,17-19). E’ giusto dunque rintracciare nell’Antico Testamento le radici dell’atteggiamento evangelico.
L’esigenza della giustizia
Il primo insegnamento a riguardo dei nemici che ci viene proposto dai Salmi è quello di evitare un falso irenismo, di non accettare l’ingiustizia e l’oppressione a testa bassa come se fossero volute da Dio. I Salmi nascono da una sana rivolta contro l’ingiustizia. Sono il grido di povera gente che non si rassegna ad essere messa sotto i piedi perché crede che, se Dio esiste, egli non può permettere che l’ingiustizia trionfi. I salmi imprecatori sopra citati si lasciano comprendere in questa prospettiva. Non serve chiudere la protesta nel cuore, tacitare la rivolta dell’animo. I Salmi insegnano a verbalizzare la nostra sete di giustizia di fronte a Dio.
Il salmista è cosciente che, se vuole seguire la legge del Signore, deve andare contro corrente: la maggior parte degli uomini segue un’altra strada. Egli si sente perseguitato non perché ha offeso qualcuno, ma proprio perché ha voluto essere fedele al suo Dio. «Sorgi, Dio, difendi la tua causa, ricorda che lo stolto ti insulta tutto il giorno» (Sal 74,22). I nemici del salmista non sono suoi nemici personali, ma nemici di Dio.
In questo senso si comprende la “vendetta” che i “figli di Sion” sono chiamati a compiere tra i popoli (Sal 149,7). E la stessa vendetta che compie anche il Messia in Sal 2,8-9: cioè quella di condurre i ribelli all’obbedienza di Dio e all’osservanza della sua legge. Amare i nemici di Dio vorrebbe dire adottare il loro stile di vita, perciò il salmista afferma: «Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano, e non detesto i tuoi nemici?» (Sal 139,21). L’inizio del Salterio ricorda che chi vuole seguire la legge del Signore deve saper dire un no deciso a “empi”, “peccatori” e “stolti” (Sal 1,1 -2).
Il grido dei “salmi di lamentazione” si fonda sulla fede che Dio esiste, e che non rimane indifferente di fronte all’ingiustizia. Fedele al principio di Dt 32,35 (“Mia è la vendetta”), il salmista non si fa giustizia da sé: invoca la vendetta divina. «Perché l’empio disprezza Dio e pensa: “Non ne chiederà conto?”» (Sal 10,13). Egli sa che la violenza e l’ingiustizia non pagano: il male che uno fa ricade sul capo stesso di chi lo compie (cf 7,15-17). Invocare la vendetta divina è un atteggiamento non violento: solo se uno sa che Dio fa giustizia può rinunciare a farla con le sue mani. Il salmista ha coscienza che il ricorso alla violenza, anche per combattere la violenza altrui, è incompatibile con la fiducia in Dio. La fede in Dio esclude la fede nelle armi: «Chi si vanta dei carri e chi dei cavalli, noi siamo forti nel nome del Signore nostro Dio» (20,8, cf. 33,16-17). «Non confidate nella violenza, non illudetevi della rapina; alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore» (62,11), L’aiuto che il salmista si attende non può venire da mezzi umani: «Non dall’oriente, non dall’occidente, non dal deserto, non dalle montagne, ma da Dio viene il giudizio» (75,7). Per cui il Salmo 118,8 conclude: «E meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo». La preghiera dei Salmi è, appunto, questo “rifugiarsi nel Signore” di fronte alla violenza del mondo: un “rifugiarsi che esclude la ricerca di altri rifugi.
La tentazione della violenza
Come molti libri dell’Antico Testamento, i Salmi sono l’espressione di un gruppo minoritario nel seno del giudaismo postesilico. Essi rappresentano, con molta probabilità, non il culto ufficiale del tempio, ma di un gruppo che vive la cosiddetta spiritualità dei ‘poveri di JHWH”. Si tratta di poveri reali, fatti spesso oggetto di soprusi e oppressione da parte dei ricchi, ma che hanno fatto di questa loro situazione di povertà un atteggiamento spirituale. La loro vera ricchezza è JHWH.
La loro scelta viene messa a dura prova dalla riuscita dei malvagi. Nella società sembra aver successo chi non guarda troppo per il sottile, chi si fa largo a colpi di gomito senza preoccuparsi della legge di Dio. «Non c’è sofferenza per essi, sano e pasciuto è il loro corpo. Non conoscono l’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e la violenza è il loro vestito» (73, 4-6).
La tentazione del giusto è quella dell’invidia. Sembra che non paghi essere fedele alla legge del Signore, che valga la pena servirsi della violenza e del sopruso, che questa sia l’unica strada per aver successo nella vita: «Per poco non inciampavano i miei piedi..., perché ho invidiato i prepotenti, vedendo la prosperità dei malvagi» (73,2-3). Il Salmo 37 si lascia comprendere come un tentativo di calmare un povero che si scandalizza del successo dei prepotenti: «Non adirarti contro gli empi, non invidiare i malfattori» (37,1).
Di fronte al successo dei malvagi il salmista trova le ragioni per superare la tentazione dell’invidia anzitutto in una osservazione globale della vita. Alla lunga l’ingiustizia non paga. Non i violenti, ma i miti (‘anawim) possederanno la terra (37,11 cf Mt 5,5) . Anche dal punto di vista del successo terreno, la nonviolenza alla fine è vittoriosa. Questo atteggiamento viene designato come “silenzio”, un concetto sapienziale che si oppone alla “collera”. E’ il dominio di sé, il non rispondere alla violenza con violenza. Nel Sal 35,20 i giusti vengono designati come “i silenziosi del paese”. «Sta’ in silenzio davanti al Signore e spera in lui», consiglia il salmo 37,7. Il “silenzio” è l’atteggiamento di colui che spera, che vive nell’attesa della giustizia di Dio (cf. anche 37,9 ).
Osservare questo tipo di “silenzio” di fronte ai nemici non è facile. Il salmista di 39,2-4 ci ha provato: «Sono rimasto quieto in silenzio; tacevo, ma non trovavo pace: la sua fortuna ha esasperato il mio dolore». Alla fine però egli ritornerà al silenzio: «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (v. 10). Il pensiero che gli ha permesso di ritornare alla pace è stato quello della fugacità della vita umana (vv. 5-7 cf. anche 73,17-20). Di fronte alla morte le ricchezze si mostrano come una falsa sicurezza. Per quanto ricco e potente sia un uomo, contro la morte non può nulla (49,8- 15). Anch’egli in fondo è un povero di fronte a Dio, perché, con tutte le sue ricchezze, non riesce a salvare la sua vita (22,30: «non possono mantenere in vita il loro respiro») .
Il salmista non prova più invidia di fronte al successo dei violenti. Egli sa di aver posto la sua fiducia in Qualcuno che può salvare dalla morte (49,16), cosa che nessuna ricchezza può garantire. La sua ricchezza è il Signore, e ciò lo riempie di gioia più che l’abbondanza di vino e frumento (4,8). Perciò può addormentarsi tranquillo, senza pensieri. Il sonno è immagine della morte. Traspare qui la speranza dell’immortalità. La morte separa da tutti i beni terreni: ma il salmista ha fiducia che essa non potrà separarlo dal suo Dio. «Sazia pure dei tuoi beni il loro ventre, se ne sazino anche i figli e ne avanzi per i loro bambini. Ma io per la tua giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza» (17,14-15, cf. 73,25). La prosperità degli empi non è più uno scandalo: «tra le loro malvagità continui la mia preghiera» (141,5).
Rendere bene per male
I “nemici” del salmista sono, nella maggior parte dei casi, non i popoli stranieri, ma membri del suo stesso popolo, gente contro cui, secondo Levitino 19,17-18, la vendetta è proibita. Certo il tradimento da parte di un fratello è particolarmente doloroso, e il salmista esprime di fronte al Signore apertamente la sua protesta contro l’ingiustizia ricevuta. «Se mi avesse insultato un nemico, l’avrei sopportato; se fosse insorto contro di me un avversario, da lui mi sarei nascosto. Ma sei tu, mio compagno, mio amico e confidente; ci legava una dolce amicizia, verso la casa di Dio camminavamo insieme» (55,13-15, cfr. 41,10).
Il salmista affida a Dio il compito di ristabilire la giustizia, di fare vendetta contro queste persone. Vendicarsi da sé sarebbe peccato: sarebbe in fondo un imitare il violento, non aver fiducia nella giustizia del Signore. Il salmista si proclama innocente da questa colpa. «Se ho ripagato il mio amico con il male e a torto ho spogliato i miei avversari, il nemico mi insegua e mi raggiunga» (7,5-6). E una stessa persona che è ad un tempo “amico” e “avversario”: ripagare a lui il male sarebbe un “torto”, degno, questo sì, di essere pagato con la stessa moneta.
Di fronte al bisogno dei suoi nemici il salmista assume un atteggiamento di rispetto e compassione: «Io quando erano malati, vestivo di sacco, mi affliggevo con il digiuno, riecheggiava nel mio petto la mia preghiera. Mi angustiavo come per l’amico, per il fratello come in lutto per la madre mi prostravo nel dolore» (35, 13-14). Come E. Levinas sottolinea, è il bisogno che fa di un uomo, anche di un nemico, il mio prossimo. Di fronte alla necessità. l’inimicizia deve essere messa da parte. Sarebbe riprovevole gioire della disgrazia del proprio nemico (cf. Giobbe 31,29-30; Proverbi 24,17-18)
La figura di Davide
Molti salmi vengono attribuiti, dal titolo, a Davide. I titoli non appartengono al testo originale del salmo, sono un’attribuzione successiva: il loro interesse non è tanto storico (la maggior parte dei salmi sono infatti postesilici), ma teologico. Essi sono la più antica testimonianza della maniera con cui il popolo di Dio li ha pregati. Non è il Davide glorioso che viene qui evocato, ma il Davide sofferente, alle prese con i suoi nemici. Vengono menzionati soprattutto due casi di inimicizia, quello di Assalonne e quello di Saul.
Il titolo del Sal 3: «Di Davide, quando fuggiva davanti a Suo figlio Assalonne» si connette a una delle pagine più toccanti della storia di Davide: 2Sam 15,13-37. «Davide saliva l’erta degli Ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi; tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto, e, salendo, piangeva» (v. 30). L’orante del salmo viene identificato, dunque, con Davide, e il “nemico” con suo figlio Assalonne. A una simile situazione “storica” conduce il titolo del Sal 7. Il “Cushita”, di cui qui si parla, è infatti colui che annunciò a Davide la morte di Assalonne (2 Sam 18,21-32). Su questo sfondo, l’attestazione del salmista di non essersi vendicato dei propri nemici (Sa 7,5-6), acquista un significato particolare. Mentre il Cushita si era rallegrato della morte di Assalonne, Davide ne fu profondamente addolorato. Prima di essere suo nemico, Assalonne era infatti suo figlio: « Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio» (2 Sam 19,1). Alla morte di Assalonne si riferisce anche il titolo del Sal 9, che la Volgata traduce correttamente: Pro morte filii «per la morte del figlio». Esso invita a leggere il Sal 9 come la giustizia compiuta da Dio sui nemici del salmista, identificati con il ribelle figlio di Davide.
In un altro gruppo di salmi, i titoli rinviano al conflitto tra Davide e Saul. La «lingua d’impostura» di cui parla 52,6, è, secondo il titolo, quella dell’idumeo Doeg, che riferì a Saul della sosta di Davide a Nob e massacrò i sacerdoti (1Sam 22,8; 23,6-23). A situazioni simili rinviano i titoli di Sal 54 (cf. 1Sam 23,19-28); 56 (cf. 1Sam 21,11-15); 57 (cf. 1Sam 24); 59 (cf. 1Sam 19,11-17); 63 (cf. 2Sam 23,14-24,23). Davide, braccato da Saul, si trova in situazioni umanamente disperate, da cui si salva grazie all’aiuto divino. Egli è il tipo dell’innocente ingiustamente perseguitato, ma anche dell’uomo nonviolento. Emblematico è l’episodio della caverna (1Sam 24), evocato nel titolo del Sal 57. Ai suoi uomini, che gli chiedono di uccidere colui voleva ucciderlo (sarebbe stata legittima difesa!), Davide risponde: «Mi guardi il Signore dal fare simile cosa al mio signore, al consacrato del Signore» (v, 7). Egli rifiuta di farsi giustizia da sé, lascia che sia il Signore a compierla: «Il Signore sia arbitro e giudice tra me e te, veda e giudichi la mia causa e mi faccia giustizia di fronte a te» (v. 16): sembra di udire il linguaggio dei Salmi. Saul commenta così il comportamento di Davide: «Tu sei stato più giusto di me perché mi hai reso il bene mentre io ti ho reso il male» (v. 18). A questa “migliore giustizia”, che rende bene per male, si ispira anche il salmista, come sopra abbiamo visto a riguardo di Sal 7,5-6 e 35,13-14.
Anche se nei Salmi non si parla esplicitamente di “amore dei nemici”, nell’atteggiamento di nonviolenza dei poveri di JHWH sono presenti tutte le caratteristiche del messaggio evangelico.