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 Lidia, una commerciante ospitale
don Augusto Fontana

Il Testo

<<Salpati da Troade, facemmo vela verso Samotracia e il giorno dopo verso Neapoli e di qui a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia. Restammo in questa città alcuni giorni; il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne là riunite. C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo esser stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: “Se avete giudicato ch'io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa”. E ci costrinse ad accettare>>. (Atti 16,11-15)

 Per comprendere il testo
          Il viaggio missionario di Paolo approda per la prima volta in Europa a Filippi, colonia romana. Fuori della porta, a circa 2 chilometri, scorreva il fiume Gangite. Si pensa che la città di Filippi non avesse Sinagoga a causa dell’esiguo numero di giudei presenti.  Paolo comunque si informa sui luoghi di preghiera e capita  sulla riva del fiume, in una specie di oratorio a cielo aperto dove le donne stavano effettuando una riunione di preghiera e di abluzioni purificatorie. Lì incontra Lidia donna benestante e indipendente, appartenente alla categoria dei «timorati di Dio», come il centurione Cornelio (Atti 10,2). Il gruppo dei  «timorati di Dio» erano coloro che, pur aggregati alla sinagoga, non si erano ancora assunti l’impegno di passare al giudaismo ( per i maschi mediante la circoncisione) e quindi non erano obbligati all’osservanza di tutta la Toràh. Di fatto dal punto di vista religioso-legale erano ritenuti pagani impuri.

          La successione di alcuni verbi indicano il cammino di conversione: «parlavamo alle donne - Lidia stava ad ascoltare - il Signore le aprì il cuore - aderì a quanto detto da Paolo - furono battezzati - ci costrinse ad andare a casa sua» . Lidia è la prima cristiana europea, lei e la sua casa. Nella Lettera ai Filippesi Paolo stranamente non fa menzione di Lidia, però si può pensare che essa faccia parte del gruppo di vescovi, diaconi e santi a cui Paolo rivolge il saluto iniziale (Filip. 1,1). Dalla lettera ai Romani comunque si viene a sapere che in giro nelle comunità paoline c’erano anche delle diaconesse (Rom. 16,1: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre; ricevetela nel Signore come si conviene ai credenti e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa infatti ha protetto molti e anche me»).

          Al narratore sta a cuore sottolineare che la casa di Lidia diventa il nucleo della nuova comunità di Filippi. Al v. 40 si viene a sapere che quando Paolo e Sila escono dal carcere, si rifugiano a casa di Lidia dove sono riuniti i fratelli della comunità. La sua casa era dunque divenuta una chiesa domestica, luogo accogliente, di catechesi e di preghiera. Di questa comunità Paolo ricorda, nella lettera ai Filippesi, alcuni membri: due donne, Evodia e Sintiche, che non andavano molto d’accordo, ma che sono ricordate come lottatrici per il Vangelo (Fil. 4,2); poi  Clemente, poi Epafrodito, compagno di lavoro e di lotta di Paolo, inviato dalla comunità di Filippi ad aiutare Paolo, ma poi rinviato da Paolo in quanto seriamente ammalato (Fil. 2, 25-30). La comunità di Filippi nasce sotto il segno di questo primo atto di calda accoglienza di Lidia e pare che Paolo sia rimasto affettuosamente legato a questa comunità (Fil. 1, 7: «vi porto nel cuore»); si sa che quando si troverà nel bisogno nel periodo della sua lunga prigionia, accetterà di ricevere aiuti solo da questa comunità, nata dalla accoglienza e dalla delicatezza di una donna di nome Lidia. Probabilmente Paolo si sarà ricordato che agli inizi della sua missione, quando si era presentato a Gerusalemme «cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui non credendo ancora che fosse un discepolo»  (Atti 9, 26).

 Per approfondire
Nelle liturgie cattoliche, le donne sono ancora chiamate: "cari fratelli" . Potrebbe essere uno stupido e insignificante particolare, eppure il linguaggio “inclusivo” è ancora lontano dall’essere riconosciuto; immaginiamo quanto sia lontano anni luce l’inserimento della donna nell’Ordine sacramentale come diaconesse prima ancora che come presbitere. E’ evidente che il processo di integrazione non si identifica semplicisticamente con l’Ordinazione delle donne e la loro clericalizzazione.

Andando a vedere le prime mosse della chiesa apostolica delle origini mi verrebbe quasi da dire che siamo tornati indietro, nonostante le recenti dichiarazioni pontificie del “genio della donna”.

Molte donne vengono citate, in alcuni testi, gomito a gomito con gli uomini, compartecipi di alcuni ministeri.

Il capitolo 16 di Romani, in particolare, ci mostra la donna impegnata a fondo nel lavoro per Dio e collaboratrice a pieno titolo degli Apostoli. Nei versetti 1 -16, una serie di fratelli in Cristo, sono nominati con una qualifica, ma anche una decina di sorelle. Quelle che si distinguono particolarmente sono:

    • v.2: Febe diaconessa della chiesa di Cencrea ( parte di Corinto); questa donna efficace e degna di rispetto aveva un ministero preciso.
    • v. 3-4: Prisca con Aquila, suo marito; Paolo li qualifica "compagni d'opera", ciò significa che essi facevano gruppo con lui.
    • v.6: Maria di cui l’Apostolo mette in evidenza l'intensità del suo lavoro per Dio e la chiesa.
    • v. 7-8: Giunia (d'abitudine nome femminile) qui con Andronico, godeva di una "grande considerazione tra gli Apostoli". Senza fare evidentemente parte del collegio apostolico, essi meritano la qualifica di "apostoli" nel senso largo di "inviati". Ciò significa che essi avevano un ruolo importante, nella missione della chiesa (cfr. Atti 14,14; 1 Timoteo 1,1; 2,6).
    • v. 12: Trifena, Trifosa e Perside, impegnate tutte e tre, e molto attivamente, nell’opera del Signore.

Anche la lettera ai Filippesi 4, 2-3 menziona altre due collaboratrici dell’Apostolo, Evodia e Sintiche. Malgrado il problema che esse rappresentavano sul piano dell’unità, l'Apostolo non dimentica il loro totale impegno, e la loro associazione, nella diffusione per il Vangelo.

Per continuare la ricerca
Da donna al nuovo Papa. di ­Lilia Sebastiani. (ROCCA 01/06/05)

[…]

Un 'indice' esplosivo
È ben possibile che ci siano problemi più gravi e più urgenti di questo [della donna nella chiesa. N.d.r.], nella chiesa di Roma e nel mondo: sottosviluppo, vio­lenza, oppressione, discriminazione, vio­lazione di diritti umani... A parte il fatto che la questione femminile è variamente intrecciata con tutti questi problemi sul piano delle cause, delle conseguenze, del­le manifestazioni, non si vogliono fare gra­duatorie in questo senso. Quando parliamo dell' accesso delle donne ai ministeri ordinati, gli ostacoli non ven­gono solo dalla contrarietà 'ideologica' dei tradizionalisti e dalla chiusura di princi­pio della gerarchia; c'è sempre qualcuno pronto a rilevare che dopotutto questo pro­blema è tale solo per una minoranza di donne bianche e occidentali - e benestanti e colte per di più - visto che le altre hanno ben altro da pensare. Sì, questa è una riflessione dichiaratamen­te occidentale, parziale dunque, ma in modo consapevole (tutte le nostre rifles­sioni sono parziali, contestuali, provviso­rie, e questo non è in sé un male: diventa pericoloso quando hanno presunzioni di universalità o di assoluto). Inoltre provie­ne da un paese relativamente evoluto e se­midemocratico, a maggioranza cattolica, come si dice - personalmente trovo molto difficile calcolare queste maggioranze o determinarne l'indice di cattolicità, al di là dei dati anagrafici -, o comunque di tra­dizione cattolica.

In un contesto del genere la visibilità della gerarchia della chiesa è ancora un fatto rilevante, e la maggior parte dei cattolici, anche e soprattutto di quelli tiepidi e con­suetudinari, viene in contatto con il vissu­to di chiesa quasi solo in occasione del momento celebrativo. Perciò è fondamen­tale la visibilità della celebrazione, il mes­saggio del 'sacro'. E mettiamo 'sacro' tra virgolette, perché il sacro, fondamentale in quasi tutte le religioni e nell'esperienza religiosa in genere, nel cristianesimo sa­rebbe programmaticamente trasceso, al­meno nel momento fondante... Ma questo è un altro discorso.

In un contesto del genere non è lecito igno­rare il problema dell' esclusione delle don­ne dai ministeri ordinati a causa del loro sesso. Il problema è sempre più urgente e scandaloso, non già perché le donne non riescano a vivere senza fare i preti (si sono abituate benissimo in questo senso), ma per la sua natura di segno, perché è un in­dice di autenticità. L’urgenza non riguar­da propriamente le donne, le quali sem­mai sono solo in prima linea nel sottoline­arla, com'è loro dovere, ma tutta la chiesa: perché non esiteremmo ad affermare che il futuro della chiesa cattolica dipende in larga misura proprio dalle scelte che sa­ranno compiute in questo senso.

Finché le donne solo in virtù del loro sesso e di nessun' altra variabile personale saran­no escluse dall' ordine sacro (e quindi da ogni funzione di governo e di magistero nella chiesa, perché esercitare queste fun­zioni nell'ordinamento vigente è subordi­nato al possesso dell'Ordine sacro), è ov­vio che tutti i cortesi riconoscimenti in ordine alla 'dignità', alla 'missione' delle donne e all'auspicata giusta promozione delle stesse in tutti gli ambiti in cui non disturbano troppo, potranno solo suonare generici e inautentici. Anzi, l'esclusione è 'scandalosa' oggi mentre una volta non lo era, proprio perché una volta era smussa­ta e diluita dalla generale subordinazione delle donne e dalla loro quasi completa esclusione dalle funzioni pubbliche e au­toritative, e quasi legittimata dall'onesta, esplicita misoginia degli uomini di chiesa che oggi invece sembrerebbe superata sul piano delle affermazioni.

Non mi sento molto ottimista in questo momento, eppure sono convinta che il pro­blema dell' accesso delle donne al ministe­ro si risolverà, non tanto in seguito a fol­gorante conversione o a sofferta macera­zione di chi deve e può decidere, quanto per normale, fisiologica trasformazione storica. Certo dovrà passare ancora del tempo e, se si vuole azzardare una specie di previsione, direi qualche decennio: da un minimo di circa trent'anni a un massi­mo di forse cinquanta, per la rimozione ufficiale delle barriere (anche se restereb­bero da considerare le fasi di sperimenta­zione, resistenza e 'normalizzazione')...Ma una risposta giusta che arriva troppo tardi è giusta ancora? o non è piuttosto un penoso tentativo di recuperare il recupe­rabile, salvo scoprire poi che nel frattem­po c'è rimasto ben poco? La Chiesa è abi­tuata ai tempi lunghi, ma la storia viaggia con ritmi sempre più accelerati: la storia non ha molta pazienza ormai, e poco im­porta che le donne siano atavicamente abituate ad averne. Una cosa giusta che arriva troppo tardi, perde lungo il cammi­no gran parte del senso e, purtroppo, qua­si tutta la sua profezia. Questo ritardo sa­rebbe già una cosa grave in qualsiasi am­bito sociale, ma è tragica per chi ama la chiesa e la vorrebbe più fedele all' esempio del suo fondatore.

Quante chiusure 'definitive'!

La questione del sacerdozio femminile si è avanzata concretamente negli anni del Concilio, anche in risposta al fatto che la chiesa luterana svedese aveva cominciato da poco (1958) ad ammettere le donne al pastorato, ma soprattutto grazie al vento di novità che spirava in quegli anni nella chiesa cattolica. Il Concilio Vaticano II non parla molto delle donne specificamente, e ignora il pro­blema del loro accesso al ministero ordi­nato; ma il rinnovamento complessivo che determinò nella chiesa, e l'aver comunque introdotto una prassi di libero dibattito sulle questioni più scottanti (è questa una delle conquiste più difficili da abolire, an­che in tempo di restaurazione, perché or­mai saldamente radicata nel costume ec­clesiale e non solo), risvegliò importanti speranze anche in questo senso. Negli anni Settanta gli studi sul ministero e le discus­sioni sul ministero femminile fiorirono in modo promettente, al punto che la voce ufficiale della chiesa non ritenne di dover troncare la questione una volta per tutte: con il motu proprio “Inter Insigniores” del 1976, in cui veniva ribadita ovviamente per sempre l'esclusione delle donne dai mini­steri ordinati per volontà divina, facendo leva soprattutto su due argomenti: l'inin­terrotta tradizione della chiesa (evidente, ma anche evidentissimo portato della sto­ria e delle culture) e la maschilità di Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruen­za simbolica della maschilità del prete che agisce “in persona Christi”. Questo ultimo argomento fu oggetto di tali attacchi che la sua fragilità e la sua sconvenienza si fe­cero abbastanza rapidamente chiari perfi­no all'autorità ecclesiastica: infatti sembra che sia stato lasciato cadere nei pronun­ciamenti successivi, che si rifanno solo alla tradizione della chiesa e a quella che viene indicata come l'esplicita volontà di Cristo manifestata dalla sua prassi.

Ma Gesù non mostra nessun interesse di tipo 'istituzionale', e alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel grup­po dei seguaci. Non poteva porsi il proble­ma di farle o non farle diventare sacerdo­ti, perché non si pone il problema del sa­cerdozio (anzi, possiamo suggerire a bas­sa voce che lo rifiuta, che lo proscrive?). E se nei Vangeli di una certa cosa non si parla, non vuol sempre dire che quella cosa 'non sia': solo che l'evangelista, per motivi suoi - motivi che talvolta sappiamo o pos­siamo ricostruire, talvolta no -, non rite­neva opportuno parlarne. Questo fatto sembra scontato ma dev'essere sempre sot­tolineato perché sappiamo benissimo quanta grande importanza il magistero della chiesa attribuisca all' essersi sempre creduto che all'ultima cena di Gesù con i suoi le donne non fossero presenti. Si è sempre creduto: perché i vangeli non ne dicono nulla. Ma, diceva qualcuno, un'as­senza di prove non è una prova di assenza. Nella questione di cui ci occupiamo, l'at­teggiamento dei vertici romani non sem­brerebbe molto promettente, ma l'unico elemento che spinge a un certo ottimismo è proprio la frequenza dei pronunciamenti 'definitivi'. Forse ogni ulteriore chiusura spalanca alla vista la contraddizione, e quindi addita una responsabilità, un'ur­genza.

Quando si dice «il sacerdozio non ci interessa»

Lasciamo stare le donne cattoliche conser­vatrici, che per quanto concerne la condi­zione femminile nella chiesa possono es­sere, lo sappiamo, ben più nefaste del più arcigno e conservatore dei chierici.

Il fatto è un altro. Esistono, ne conosco anche personalmente, donne cristiane di alto valore e seriamente impegnate, com­prese alcune teologhe, che a una doman­da precisa sul problema dei ministeri ri­spondono all'incirca: no grazie, il sacerdo­zio «così com'è» proprio non ci interessa! Capisco questo atteggiamento, lo rispetto e ne condivido diversi presupposti (soprat­tutto il timore, espresso o no, che insistere sul tema dell' ordinazione induca ad accen­tuare l'importanza dei ministri ordinati nella Chiesa, mentre urgente sarebbe sem­mai ridurre quell'importanza, insomma declericalizzare la Chiesa). Bisogna però tener presente che il «sacerdozio così co­m'è», nella storia e nella mentalità corren­te, si fonda proprio sulla 'separazione', sul­lo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna. Sospet­to-rifiuto espresso in una duplice forma, nella chiesa romana: l'esclusione delle don­ne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all'obbligo istituzio­nale di essere «senza donna» per coloro che le esercitano, e i due problemi che sem­brano distinti nelle manifestazioni sono congiunti alla radice e non potranno giun­gere a soluzione che insieme. Eliminare il rifiuto della femminilità, nel­le sue due dimensioni inseparabili, signi­ficherebbe un importante inizio di purifi­cazione e ripensamento dell'Ordine. Che non è affatto, non dovrebbe essere sinoni­mo di 'sacerdozio'.  Anche a me non piace parlare di 'sacerdo­zio femminile', così come di sacerdozio al maschile, e mi infastidisce in modo indi­cibile l'abitudine invalsa tra i cattolici di chiamare 'sacerdoti' i preti, quasi che una tale terminologia risulti più fine o più ri­spettosa..., o più sacra. E semplicemente illegittimo usare la parola sacerdote per chiunque non sia l'unico sacerdote della Nuova Alleanza, il laico Gesù di Nazaret. Non è molto cristiano, anzi è quasi anti­cristiano continuare ad anteporre il 'sacro' (recintato, riservato, puntellato e difeso da tabù e interdetti) alla 'santità' a cui tutti siamo chiamati. Per questo si preferisce parlare in modo più umile e tecnico di ordinazione delle donne, del loro accesso ai ministeri ordi­nati. Certo, l'accesso puro e semplice del­le donne al sacerdozio non è una panacea, non risolverà tutti i problemi, in partico­lare non risolverà la contraddizione insita nell' esistenza stessa di un sacerdozio in chiese che fanno parte della più vasta co­munità dei credenti in Cristo. È ovvio che occorrerà ridefinire natura e funzione del ministero nella chiesa me­glio di quanto si sia fatto dopo il Vaticano II (il cui apporto resta comunque storica­mente determinante, soprattutto per l'ac­cento posto sul sacerdozio universale dei fedeli), all'interno di una nuova ecclesio­logia che dovrà necessariamente trascen­dere la struttura monarchico-clericale che tuttora sembra far parte della natura in­tima della chiesa mentre è solo uno svi­luppo storico comprensibile e innatural­mente persistente.

 Vorremmo presiedere l' eucaristia?

Tempo fa, da una giornalista di “Tempi di fra­ternità” che mi intervistava mi venne chie­sto, tra le altre cose, se avevo mai pensato di presiedere l'Eucaristia comunitaria. Solo allora, sentendo come non era facile rispon­dere, ho scoperto di avervi pensato sempre, ma di non avervi pensato mai.

O meglio, il soggetto del mio pensarci era «io=donna», non «io-e-basta», e il pensie­ro era solo teorico, il che certo costituisce un elemento di debolezza. Pensiero, non aspirazione, tanto meno progetto, neppu­re desiderio (se non per quanto riguarda appunto «io=donna»; del resto non siamo allenati a desiderare cose che in partenza sappiamo escluse dal ventaglio delle op­zioni possibili). Non ricerchiamo piccole affermazioni di tipo privato-trasgressivo: a che servirebbero? Le aspirazioni semmai sono di tipo storico e guardano all'insie­me del popolo di Dio: al giorno in cui una donna potrà celebrare l'Eucaristia in una messa con il popolo, guidare una comuni­tà, ricevere e trasmettere un mandato ec­clesiale.