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Lidia,
una commerciante ospitale Il
Testo <<Salpati da Troade, facemmo vela verso Samotracia e il giorno dopo verso Neapoli e di qui a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia. Restammo in questa città alcuni giorni; il sabato uscimmo fuori della porta lungo il fiume, dove ritenevamo che si facesse la preghiera, e sedutici rivolgevamo la parola alle donne là riunite. C'era ad ascoltare anche una donna di nome Lidia, commerciante di porpora, della città di Tiàtira, una credente in Dio, e il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo. Dopo esser stata battezzata insieme alla sua famiglia, ci invitò: “Se avete giudicato ch'io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa”. E ci costrinse ad accettare>>. (Atti 16,11-15) Per
comprendere il testo • La successione di alcuni verbi indicano il cammino di conversione: «parlavamo alle donne - Lidia stava ad ascoltare - il Signore le aprì il cuore - aderì a quanto detto da Paolo - furono battezzati - ci costrinse ad andare a casa sua» . Lidia è la prima cristiana europea, lei e la sua casa. Nella Lettera ai Filippesi Paolo stranamente non fa menzione di Lidia, però si può pensare che essa faccia parte del gruppo di vescovi, diaconi e santi a cui Paolo rivolge il saluto iniziale (Filip. 1,1). Dalla lettera ai Romani comunque si viene a sapere che in giro nelle comunità paoline c’erano anche delle diaconesse (Rom. 16,1: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre; ricevetela nel Signore come si conviene ai credenti e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno; anch’essa infatti ha protetto molti e anche me»). • Al narratore sta a cuore sottolineare che la casa di Lidia diventa il nucleo della nuova comunità di Filippi. Al v. 40 si viene a sapere che quando Paolo e Sila escono dal carcere, si rifugiano a casa di Lidia dove sono riuniti i fratelli della comunità. La sua casa era dunque divenuta una chiesa domestica, luogo accogliente, di catechesi e di preghiera. Di questa comunità Paolo ricorda, nella lettera ai Filippesi, alcuni membri: due donne, Evodia e Sintiche, che non andavano molto d’accordo, ma che sono ricordate come lottatrici per il Vangelo (Fil. 4,2); poi Clemente, poi Epafrodito, compagno di lavoro e di lotta di Paolo, inviato dalla comunità di Filippi ad aiutare Paolo, ma poi rinviato da Paolo in quanto seriamente ammalato (Fil. 2, 25-30). La comunità di Filippi nasce sotto il segno di questo primo atto di calda accoglienza di Lidia e pare che Paolo sia rimasto affettuosamente legato a questa comunità (Fil. 1, 7: «vi porto nel cuore»); si sa che quando si troverà nel bisogno nel periodo della sua lunga prigionia, accetterà di ricevere aiuti solo da questa comunità, nata dalla accoglienza e dalla delicatezza di una donna di nome Lidia. Probabilmente Paolo si sarà ricordato che agli inizi della sua missione, quando si era presentato a Gerusalemme «cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui non credendo ancora che fosse un discepolo» (Atti 9, 26). Per
approfondire Andando a vedere le prime mosse della chiesa apostolica delle origini mi verrebbe quasi da dire che siamo tornati indietro, nonostante le recenti dichiarazioni pontificie del “genio della donna”. Molte donne vengono citate, in alcuni testi, gomito a gomito con gli uomini, compartecipi di alcuni ministeri. Il capitolo 16 di Romani, in particolare, ci mostra la donna impegnata a fondo nel lavoro per Dio e collaboratrice a pieno titolo degli Apostoli. Nei versetti 1 -16, una serie di fratelli in Cristo, sono nominati con una qualifica, ma anche una decina di sorelle. Quelle che si distinguono particolarmente sono:
Anche
la lettera ai Filippesi 4, 2-3 menziona altre due collaboratrici
dell’Apostolo, Evodia e Sintiche. Malgrado il problema che esse
rappresentavano sul piano dell’unità, l'Apostolo non dimentica il loro
totale impegno, e la loro associazione, nella diffusione per il Vangelo. Per
continuare la ricerca […] Un 'indice' esplosivo In un contesto del genere la visibilità della gerarchia della chiesa è ancora un fatto rilevante, e la maggior parte dei cattolici, anche e soprattutto di quelli tiepidi e consuetudinari, viene in contatto con il vissuto di chiesa quasi solo in occasione del momento celebrativo. Perciò è fondamentale la visibilità della celebrazione, il messaggio del 'sacro'. E mettiamo 'sacro' tra virgolette, perché il sacro, fondamentale in quasi tutte le religioni e nell'esperienza religiosa in genere, nel cristianesimo sarebbe programmaticamente trasceso, almeno nel momento fondante... Ma questo è un altro discorso. In un contesto del genere non è lecito ignorare il problema dell' esclusione delle donne dai ministeri ordinati a causa del loro sesso. Il problema è sempre più urgente e scandaloso, non già perché le donne non riescano a vivere senza fare i preti (si sono abituate benissimo in questo senso), ma per la sua natura di segno, perché è un indice di autenticità. L’urgenza non riguarda propriamente le donne, le quali semmai sono solo in prima linea nel sottolinearla, com'è loro dovere, ma tutta la chiesa: perché non esiteremmo ad affermare che il futuro della chiesa cattolica dipende in larga misura proprio dalle scelte che saranno compiute in questo senso. Finché le donne solo in virtù del loro sesso e di nessun' altra variabile personale saranno escluse dall' ordine sacro (e quindi da ogni funzione di governo e di magistero nella chiesa, perché esercitare queste funzioni nell'ordinamento vigente è subordinato al possesso dell'Ordine sacro), è ovvio che tutti i cortesi riconoscimenti in ordine alla 'dignità', alla 'missione' delle donne e all'auspicata giusta promozione delle stesse in tutti gli ambiti in cui non disturbano troppo, potranno solo suonare generici e inautentici. Anzi, l'esclusione è 'scandalosa' oggi mentre una volta non lo era, proprio perché una volta era smussata e diluita dalla generale subordinazione delle donne e dalla loro quasi completa esclusione dalle funzioni pubbliche e autoritative, e quasi legittimata dall'onesta, esplicita misoginia degli uomini di chiesa che oggi invece sembrerebbe superata sul piano delle affermazioni. Non mi sento molto ottimista in questo momento, eppure sono convinta che il problema dell' accesso delle donne al ministero si risolverà, non tanto in seguito a folgorante conversione o a sofferta macerazione di chi deve e può decidere, quanto per normale, fisiologica trasformazione storica. Certo dovrà passare ancora del tempo e, se si vuole azzardare una specie di previsione, direi qualche decennio: da un minimo di circa trent'anni a un massimo di forse cinquanta, per la rimozione ufficiale delle barriere (anche se resterebbero da considerare le fasi di sperimentazione, resistenza e 'normalizzazione')...Ma una risposta giusta che arriva troppo tardi è giusta ancora? o non è piuttosto un penoso tentativo di recuperare il recuperabile, salvo scoprire poi che nel frattempo c'è rimasto ben poco? La Chiesa è abituata ai tempi lunghi, ma la storia viaggia con ritmi sempre più accelerati: la storia non ha molta pazienza ormai, e poco importa che le donne siano atavicamente abituate ad averne. Una cosa giusta che arriva troppo tardi, perde lungo il cammino gran parte del senso e, purtroppo, quasi tutta la sua profezia. Questo ritardo sarebbe già una cosa grave in qualsiasi ambito sociale, ma è tragica per chi ama la chiesa e la vorrebbe più fedele all' esempio del suo fondatore. Quante chiusure 'definitive'! La questione del sacerdozio femminile si è avanzata concretamente negli anni del Concilio, anche in risposta al fatto che la chiesa luterana svedese aveva cominciato da poco (1958) ad ammettere le donne al pastorato, ma soprattutto grazie al vento di novità che spirava in quegli anni nella chiesa cattolica. Il Concilio Vaticano II non parla molto delle donne specificamente, e ignora il problema del loro accesso al ministero ordinato; ma il rinnovamento complessivo che determinò nella chiesa, e l'aver comunque introdotto una prassi di libero dibattito sulle questioni più scottanti (è questa una delle conquiste più difficili da abolire, anche in tempo di restaurazione, perché ormai saldamente radicata nel costume ecclesiale e non solo), risvegliò importanti speranze anche in questo senso. Negli anni Settanta gli studi sul ministero e le discussioni sul ministero femminile fiorirono in modo promettente, al punto che la voce ufficiale della chiesa non ritenne di dover troncare la questione una volta per tutte: con il motu proprio “Inter Insigniores” del 1976, in cui veniva ribadita ovviamente per sempre l'esclusione delle donne dai ministeri ordinati per volontà divina, facendo leva soprattutto su due argomenti: l'ininterrotta tradizione della chiesa (evidente, ma anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e la maschilità di Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che agisce “in persona Christi”. Questo ultimo argomento fu oggetto di tali attacchi che la sua fragilità e la sua sconvenienza si fecero abbastanza rapidamente chiari perfino all'autorità ecclesiastica: infatti sembra che sia stato lasciato cadere nei pronunciamenti successivi, che si rifanno solo alla tradizione della chiesa e a quella che viene indicata come l'esplicita volontà di Cristo manifestata dalla sua prassi. Ma Gesù non mostra nessun interesse di tipo 'istituzionale', e alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei seguaci. Non poteva porsi il problema di farle o non farle diventare sacerdoti, perché non si pone il problema del sacerdozio (anzi, possiamo suggerire a bassa voce che lo rifiuta, che lo proscrive?). E se nei Vangeli di una certa cosa non si parla, non vuol sempre dire che quella cosa 'non sia': solo che l'evangelista, per motivi suoi - motivi che talvolta sappiamo o possiamo ricostruire, talvolta no -, non riteneva opportuno parlarne. Questo fatto sembra scontato ma dev'essere sempre sottolineato perché sappiamo benissimo quanta grande importanza il magistero della chiesa attribuisca all' essersi sempre creduto che all'ultima cena di Gesù con i suoi le donne non fossero presenti. Si è sempre creduto: perché i vangeli non ne dicono nulla. Ma, diceva qualcuno, un'assenza di prove non è una prova di assenza. Nella questione di cui ci occupiamo, l'atteggiamento dei vertici romani non sembrerebbe molto promettente, ma l'unico elemento che spinge a un certo ottimismo è proprio la frequenza dei pronunciamenti 'definitivi'. Forse ogni ulteriore chiusura spalanca alla vista la contraddizione, e quindi addita una responsabilità, un'urgenza. Quando
si dice «il sacerdozio non ci interessa» Lasciamo stare le donne cattoliche conservatrici, che per quanto concerne la condizione femminile nella chiesa possono essere, lo sappiamo, ben più nefaste del più arcigno e conservatore dei chierici. Il fatto è un altro. Esistono, ne conosco anche personalmente, donne cristiane di alto valore e seriamente impegnate, comprese alcune teologhe, che a una domanda precisa sul problema dei ministeri rispondono all'incirca: no grazie, il sacerdozio «così com'è» proprio non ci interessa! Capisco questo atteggiamento, lo rispetto e ne condivido diversi presupposti (soprattutto il timore, espresso o no, che insistere sul tema dell' ordinazione induca ad accentuare l'importanza dei ministri ordinati nella Chiesa, mentre urgente sarebbe semmai ridurre quell'importanza, insomma declericalizzare la Chiesa). Bisogna però tener presente che il «sacerdozio così com'è», nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla 'separazione', sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna. Sospetto-rifiuto espresso in una duplice forma, nella chiesa romana: l'esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all'obbligo istituzionale di essere «senza donna» per coloro che le esercitano, e i due problemi che sembrano distinti nelle manifestazioni sono congiunti alla radice e non potranno giungere a soluzione che insieme. Eliminare il rifiuto della femminilità, nelle sue due dimensioni inseparabili, significherebbe un importante inizio di purificazione e ripensamento dell'Ordine. Che non è affatto, non dovrebbe essere sinonimo di 'sacerdozio'. Anche a me non piace parlare di 'sacerdozio femminile', così come di sacerdozio al maschile, e mi infastidisce in modo indicibile l'abitudine invalsa tra i cattolici di chiamare 'sacerdoti' i preti, quasi che una tale terminologia risulti più fine o più rispettosa..., o più sacra. E semplicemente illegittimo usare la parola sacerdote per chiunque non sia l'unico sacerdote della Nuova Alleanza, il laico Gesù di Nazaret. Non è molto cristiano, anzi è quasi anticristiano continuare ad anteporre il 'sacro' (recintato, riservato, puntellato e difeso da tabù e interdetti) alla 'santità' a cui tutti siamo chiamati. Per questo si preferisce parlare in modo più umile e tecnico di ordinazione delle donne, del loro accesso ai ministeri ordinati. Certo, l'accesso puro e semplice delle donne al sacerdozio non è una panacea, non risolverà tutti i problemi, in particolare non risolverà la contraddizione insita nell' esistenza stessa di un sacerdozio in chiese che fanno parte della più vasta comunità dei credenti in Cristo. È ovvio che occorrerà ridefinire natura e funzione del ministero nella chiesa meglio di quanto si sia fatto dopo il Vaticano II (il cui apporto resta comunque storicamente determinante, soprattutto per l'accento posto sul sacerdozio universale dei fedeli), all'interno di una nuova ecclesiologia che dovrà necessariamente trascendere la struttura monarchico-clericale che tuttora sembra far parte della natura intima della chiesa mentre è solo uno sviluppo storico comprensibile e innaturalmente persistente. Vorremmo presiedere l' eucaristia? Tempo fa, da una giornalista di “Tempi di fraternità” che mi intervistava mi venne chiesto, tra le altre cose, se avevo mai pensato di presiedere l'Eucaristia comunitaria. Solo allora, sentendo come non era facile rispondere, ho scoperto di avervi pensato sempre, ma di non avervi pensato mai. O meglio, il soggetto del mio pensarci era «io=donna»,
non «io-e-basta», e il pensiero era solo teorico, il che certo
costituisce un elemento di debolezza. Pensiero, non aspirazione, tanto meno
progetto, neppure desiderio (se non per quanto riguarda appunto «io=donna»;
del resto non siamo allenati a desiderare cose che in partenza sappiamo
escluse dal ventaglio delle opzioni possibili). Non ricerchiamo piccole
affermazioni di tipo privato-trasgressivo: a che servirebbero? Le
aspirazioni semmai sono di tipo storico e guardano all'insieme del popolo
di Dio: al giorno in cui una donna potrà celebrare l'Eucaristia in una
messa con il popolo, guidare una comunità, ricevere e trasmettere un
mandato ecclesiale. |