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 L’EBRAISMO DI GESÙ
Alberto Mello

(QOL febb 1986; Sefer n. 25, gennaio-marzo 1984)

Gesù era un ebreo: che cosa significa questo per noi, cristiani non ebrei? Certo nessuno di noi contesta l’evidenza storica dell’ebraismo di Gesù, ma in che misura questo fatto determina anche la nostra conoscenza spirituale» di Gesù, ha un posto nella nostra confessione di fede in lui? Siccome per noi Gesù è il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo — e non solo il Messia di Israele, il Re dei Giudei — il suo ebraismo ci appare in genere come un aspetto di secondaria importanza, se non perfino limitativo e imbarazzante, Non è un po’ fastidioso, per tutti noi, il comportamento iniziale di Gesù con la donna cananea: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini? (Mt 15,26). Eppure l’ebraismo di Gesù non traspare solamente in una qualche particolarità dei suoi atteggiamenti, ma è la modalità di fondo di tutta la sua esistenza, è il suo modo di vivere, di pensare e di credere in Dio. La nostra posizione riguardo all’ebraismo di Gesù non può non avere le più profonde conseguenze sul nostro modo di concepire la sua umanità, e di conseguenza su tutta la nostra fede cristiana, Bisogna confessare che, in questo senso, quasi tutta la nostra cristologia rappresenta un grosso arretramento rispetto all’ebraismo di Gesù, e dunque anche alla sua vera e piena umanità. Forse ai Padri è sfuggito qualcosa: la umanità così semplice di Gesù, la semplicità di Gesù è più profonda delle teologie più profonde; sono parole del Patriarca Atenagora[1]. Accanto ad esse vorrei porre quelle, così convergenti, di un altro uomo molto rappresentativo della propria tradizione di fede, Martin Buber: ciò che Gesù dice è al tempo stesso semplice e profondo, ingenuo e pieno di paradossi, violento e calmo: avremo mai finito di penetrare il senso delle sue parole?[2].

Ecco, il mistero, il segreto di Gesù è tutto qui: in questa sua umanità così semplice e così piena di profondità, nelle sue parole e nei suoi gesti che non finiremo mai di spiegarci e di capire. Ma questa umanità è interamente ebraica dal principio alla fine. L’ebraismo non spiega solo l’origine di Gesù, ma è l’intero orizzonte della sua esistenza. Egli stesso non ha mai inteso oltrepassarlo, uscirne fuori: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d’Israele» (Mt 15,24).

 L’esasperazione polemica delle differenze.

L’ebraismo è dunque il campo ermeneutico della figura di Gesù, fuori dal quale la sua umanità non è più significativa, non è più parlante, oppure riceve delle connotazioni profondamente estranee, proiezioni delle nostre sempre più cangianti ideologie: dal Gesù moralista liberale al Gesù socialista rivoluzionario, per tacere delle figure trionfalistiche del passato

Tutto questo ovviamente non vuol dire che Gesù sia riducibile ad una certa somma di influenze ambientali, che non abbia cioè una sua originalità del tutto singolare; però la sua stessa originalità è perfettamente ebraica, comprensibile soltanto all’interno dell’ebraismo. Uno dei modi con cui l’esegesi specializzata, ma anche la lettura cristiana corrente del Vangelo, sottraggono Gesù al suo ebraismo, è l’esasperazione polemica delle differenze che lo opporrebbero appunto al «giudaismo» a sua volta preso come un tutto unico e indifferenziato. Ho il sospetto che una contrapposizione così frontale non serva affatto a capire Gesù, ma serva piuttosto a rivendicare una propria identità cristiana, In questo senso, il fenomeno si attesta già nel Nuovo Testamento: negli stessi Vangeli è molto evidente la polemica, sia specialmente anti-farisaica (Matteo) sia globalmente anti-giudaica (Giovanni), ma non sfugge neppure come essa rifletta in misura determinante il conflitto successivo tra la Chiesa nascente e la Sinagoga, anacronisticamente antidatato nella vita stessa di Gesù. Che cosa è più anacronistico del Gesù giovanneo che parla ai « Giudei», come se egli stesso non fosse tale?

Gesù non ha affatto voluto rompere con il « giudaismo». Se la polemica arriva fino a questo punto, vuol dire che non è sua, ma è una esasperazione della Chiesa primitiva: si veda il modo in cui Matteo trasforma una parola di Gesù sul raduno escatologico dei dispersi d’Israele in un giudizio senza appello contro i figli del Regno e in favore solamente dei pagani (cfr. Lc 13,28-29 con Mt 8,11-12).

Anziché inasprire del toni polemici comprensibili se situati storicamente ma di cui oggi, dopo Auschwitz, abbiamo misurato anche le più tragiche conseguenze, la nostra comprensione di Gesù e del Vangelo si avvantaggerebbe molto se cercassimo anzitutto di situarlo nel suo ambiente ebraico palestinese. Una identità non si costruisce solamente per contrapposizioni e non tutto ciò che è importante deve anche essere originale: se Gesù condivide la fede farisaica nella resurrezione, se su questo non è originale, non per questo la cosa ha meno valore. Lo stesso si dica di tutte le possibili «differenze» di Gesù, di cui l’esegesi neotestamentaria ha fatto un criterio per giungere alle ipsissima verba Jesu: esse non sono significative di per se stesse, ma lo diventano solo su un ampio «fondo di continuità» che nonostante tutto è molto maggiore delle differenze.

 I silenzi del Vangelo.

Anche al di là della polemica, è chiaro infatti che la testimonianza evangelica è fortemente selettiva e limitata ai gesti e alle parole decisivi, cruciali.

Del primi trent’anni di Gesù non sappiamo nulla o quasi dai Vangeli e in generale sono molte le cose non dette evidentemente perché date per scontate. Alcune vengono dette solo di sfuggita: così è solo di passaggio che veniamo a sapere che Gesù, come ogni ebreo osservante, portava sul mantello le zizioth, le frange prescritte dalla Legge, perché i malati le toccavano per essere guariti (Mt 9,20; 14,36). Forse, se non ci fossero queste testimonianze casuali, saremmo già stati indotti a credere che Gesù non si curasse di simili dettagli nel modo di vestire, tanto più che in Mt 23,5 i farisei sono proprio accusati di «allungare le frange» dei loro scialli di preghiera. E invece Gesù obbediva alla Torah anche in questo, che non è affatto un punto trascurabile, poiché la prescrizione delle frange di Num 15,38-40 è la terza parte dello Shema’, la confessione di fede con cui ogni figlio di Israele si impegna ad amare il Signore precisamente attraverso l’obbedienza alle sue volontà: «E sarà per voi come un fiocco, e quando lo guarderete vi ricorderete di tutti i precetti del Signore, per metterli in pratica» (Num 15, 39). Come questa, vi sono molte altre cose che i Vangeli non dicono esplicitamente e che noi in qualche modo dobbiamo restituire a Gesù, se lo vogliamo capire. Ad esempio, la preghiera sinagogale: i Vangeli ci insegnano ripetutamente che Gesù partecipava al culto sabbatico nelle sinagoghe e che spesso, come Rabbi, vi spiegava le Scritture, ma essi non ci dicono qual era la preghiera che si faceva in sinagoga. Mi sembra chiaro che la conoscenza della preghiera che Gesù faceva in sinagoga è anche una conoscenza elementare della sua preghiera, una conoscenza elementare di Gesù stesso. Tutte queste cose «elementari», cioé fondamentali, cui il Vangelo accenna soltanto, dove le possiamo imparare? Evidentemente soltanto dalla tradizione ebraica, quella tradizione orale che si è sedimentata essa pure in documenti scritti, la Mishnah, i Midrashim e il Talmud, ma che soprattutto è stata ininterrottamente trasmessa, custodita, praticata all’interno del giudaismo e da questa osservanza è stata sempre riattualizzata e resa viva. Con questo si vuol dire in sostanza che ‘per la conoscenza di Gesù è essenziale la conoscenza del giudaismo: una conoscenza, beninteso, non puramente storica ed erudita, ma sapienziale e spirituale, quale può nascere solo dall’incontro con una tradizione vivente.

 La ricerca ebraica.

Di fatto, che cosa ha cambiato oggi la situazione della ricerca sulla vita di Gesù? L’evento più importante in questo dopo-guerra, dopo-Auschwitz, è proprio che degli studiosi ebrei si stanno di nuovo interessando a Gesù. Questo rinnovato interesse comincia già durante Auschwitz, con il Gesù e Israele di J. Isaac (‘43-’45), che ha assolto il compito catartico di denunciare i pregiudizi cristiani antiebraici su Gesù. Ma poi prosegue con i lavori di R. Aron, Sh. Ben Chorin, P. Lapide e, soprattutto, D. Flusser e G. Vermès[3]. Queste opere non hanno tutte lo stesso carattere e valore, ma sono tutte esempi diversi di una profonda «riappropriazione ebraica» della figura di Gesù, di un approccio storico religioso estremamente simpatetico che si può spingere fino alla resurrezione, la quale è appunto una possibilità propria della fede ebraica tradizionale (cioè: farisaica) nel Dio di Abramo, nel Dio di Isacco e nel Dio di Giacobbe. Per questi autori ebrei Gesù resta pienamente compatibile con l’ebraismo, e si può spiegare solo a partire da questo. Se rottura vi è stata tra il giudaismo e il cristianesimo, essa non è imputabile a Gesù, ma al superamento della Legge conseguente alla predicazione evangelica ai pagani.

«Il Gesù sinottico, secondo i tre Vangeli di Matteo, Marco e Luca, non ha mai e in nessun luogo trasgredito o comunque invitato a trasgredire la legge di Mosè. Voi cristiani vi rendete le cose troppo facili limitandovi alla sola immagine paolina di Gesù e affermando che Gesù ha mutato la Legge, cioè l’ha resa invalida o addirittura abolita. Ciò non è vero: Paolo ha predicato in questo modo ai pagani, ma non certo agli ebrei... Questo Gesù fu così fedele alla Torah come spero di esserlo io; ho anzi il sospetto che Gesù fosse più fedele alla Torah di quanto non lo sia lo, ebreo ortodosso»[4]. Per misurare la diversità e la freschezza di questi approcci ebraici basta considerare l’impasse in cui l’esegesi cristiana del Nuovo Testamento è stata condotta in questo secolo dalla problematica bultmanniana, cioè da un paolinismo protestante esasperato secondo il quale il Gesù «secondo la carne» è una realtà storicamente irraggiungibile e teologicamente irrilevante, mentre ciò che unicamente conta è la fede cristologica postpasquale.

Qui, al contrario, non solo si ha un po’ più di ottimismo circa la conoscenza storica di Gesù (secondo Flusser, egli è il giudeo post-testamentario del quale conosciamo meglio la vita e il pensiero), ma si ha soprattutto una fiducia assai maggiore appunto nella sua umanità ebraica, e quindi nella sua fede, nella sua esperienza di Dio (e, caso mai, un po’ più di sfiducia in quella postpasquale dei discepoli). La mia fondata impressione è che il giudaismo vissuto dal quale partono questi autori sia realmente un fondo di continuità, a livello di fede e di esperienza religiosa che li sintonizza con Gesù per molti aspetti più direttamente di quanto non avvenga a noi cristiani per i quali l’accesso a Gesù è mediato da formulazioni dogmatiche più che da una similarità di esperienza.

 Il giudaismo radicale di Gesù.

Un dato storico ammesso da chiunque è che Gesù si iscrive in un giudaismo radicale, fortemente segnato dalla tensione escatologica e in qual che modo lo rappresenta: l’appello alla conversione per la prossimità del Regno di Dio fa da esordio alla sua predicazione itinerante. Fin dall’inizio del Vangelo Gesù appare nel deserto, accanto a Giovanni dal quale si fa battezzare. Ora, il deserto è proprio il luogo dell’attesa e della purificazione in vista del Regno che viene, della sua «preparazione», secondo il programma di Isaia 40, citato dai Vangeli per situare l’opera del Battista.

La predicazione penitenziale ed escatologica che caratterizza il movimento battista è certamente un elemento di grossa novità nel giudaismo dell’epoca. Un fatto come il battesimo di Giovanni « per la remissione dei peccati» non si introduce nella prassi del giudaismo senza modificare profondamente tutto ciò che concerne la purità e il perdono del peccati, fino a toccare il Tempio e i sacrifici. D’altra parte, esso si inserisce a sua volta in un movimento ascetico più vasto, che oggi siamo in grado di ricostruire attraverso i manoscritti di Qumran, sulle rive del mar Morto. Questa comunità monastica del deserto incarna infatti un ideale sacerdotale apertamente dissidente rispetto al culto del tempio, considerato illegittimo e impuro, La sua origine risale alla crisi asmonea del II sec. a.C., quando i Maccabei unirono nella stessa persona il regno e il sommo sacerdozio, per di più non sadocita. Ritiratisi nel deserto secondo la profezia di Isaia (c. 40), i monaci sadociti di Qumran seguono un calendario liturgico diverso da Gerusalemme, radicalizzando all’estremo le norme di purità (abluzioni rituali; celibato) e attendono la venuta di un Messia di Aronne, sacerdotale, che purificherà il culto del Tempio. Questo «giudaismo radicale» del deserto è il primo orizzonte entro il quale dobbiamo situare Gesù. Sappiamo che di fronte ai sadducei del Tempio, quelli che per noi rappresentano il «giudaismo ufficiale», Gesù giustifica la propria autorità rimandando al battesimo di Giovanni; ed egli sarà protagonista di un gesto profetico di purificazione dei Tempio che, quale che ne sia la portata ultima, già diversamente interpretata dai Vangeli, ha in ogni caso un carattere contestativo. Anche riguardo alla purità Gesù assume un atteggiamento radicale, come appare dalla disputa coi farisei (Mt 15,1-20 par.). La netilath jadajim, il lavarsi le mani prima dei pasti, è una prescrizione farisaica che estende alla vita quotidiana di ogni ebreo le esigenze e le prerogative del sacerdote che si accosta all’altare. La risposta di Gesù è perfettamente ad rem (non ciò che entra, ma ciò che esce dalla bocca contamina l’uomo), poiché la preoccupazione dei Farisei era che le mani impure potessero contaminare i cibi, come l’esterno della coppa può contaminare il suo interno. Ciò che invece non è più ad rem è che Gesù intendesse dichiarare puri tutti gli alimenti secondo la glossa di Mc 7,19 che riattualizza la parola di Gesù secondo la problematica della Chiesa dei gentili (cfr. At 10, dove Pietro, il commensale di Gesù, dichiara di non avere mai mangiato cibi immondi). In sostanza, ai farisei Gesù dice: non basta lavarsi le mani, occorre una purificazione ben più profonda di tutto l’uomo, a partire dal suo interno, dal suo cuore. In questo egli è certamente più radicale dei farisei, anche se lo è in un modo del tutto diverso dagli stessi monaci di Qumran, che prima dei pasti facevano una abluzione completa ed accusavano i farisei di «cercare degli alleggerimenti» per la gente. Del resto, già il Battista con il suo battesimo offerto a tutti ed una volta per sempre si discostava dalla prassi delle abluzioni quotidiane. Gesù andrà ancora più lontano: stando al IV Vangelo, anch’egli battezzava come Giovanni, all’inizio del suo ministero, ma poi non lo farà più, ed ogni volta che parlerà ancora di un battesimo si riferirà alla propria morte (cfr. Mc 10,38 ss; Lc 12,50).

Ad ogni modo, spesso il radicalismo di Gesù in materia di halakhah (norme legali!) si avvicina alle posizioni di Qumran, come sul divorzio: Essi sono presi dalla concupiscenza sposando in vita due donne, mentre il principio della creazione è: maschio e femmina li creò (Doc. Damasco 4.20; cfr. Mt 19,1-9 par.). Tuttavia a proposito delle halakhah va notato che al tempo di Gesù essa non era ancora molto fissa, ed era oggetto di discussioni anche tra i farisei, tra le scuole di Hillel e di Shammai, come si può dimostrare proprio con l’esempio del divorzio. E in fine non bisogna dimenticare che Gesù era un galileo:

certe intransigenze da « violenti» per il Regno di Dio si spiegano anche a partire dalla Galilea, la patria degli Zeloti, benché Gesù non fosse uno zelota nel senso politico del termine.

 Il giudaismo universale di Gesù.

Dopo l’arresto di Giovanni, Gesù lascia il deserto di Giuda per tornare in Galilea, dove inizia un ministero pubblico di rabbì itinerante e carismatico, di maestro autorevole della Scrittura e di profeta autore di guarigioni. “Gesù, questo battista che presto non battezzerà più, raccoglie tutto l’apporto della corrente battista e lo trasforma stranamente nella sua parola che annuncia il perdono, nei suoi gesti di esorcista e taumaturgo che pongono la salvezza, e più ancora nella sua vita e nella sua morte di profeta martire in questo sorprendente spiazzamento teologico che va dal Battista a Gesù, è difficile non riconoscere il segno personale di Gesù stesso”[5]. Ouesta predicazione dell’evangelo del Regno che è fatta per tutti specialmente i più lontani, i peccatori, i  malati  e non i sani, le pecore perdute della casa d’Israele; questa proclamazione della misericordia del Signore che riscatta l’uomo dal male e dal peccato, rendendo visibile la venuta del suo Regno (Se io scaccio i demoni con lo Spirito di Dio, allora è venuto per voi il Regno di Dio: Mt 12,28): tutto ciò è appunto il segno più personale di Gesù, l’aspetto più caratteristico del Vangelo. E si tratta di un atteggiamento profondamente universale, poiché estremamente consapevole della gratuità della salvezza, e che la misericordia di Dio è senza confini. In questo, a me pare, Gesù manifesta anche tutta la sua solidarietà e il suo radicamento nell’ebraismo più popolare, meno settario, più

universale e, in una parola, più misericordioso: cioè quello farisaico. Non vi è dubbio infatti che in Galilea gli interlocutori di Gesù, che lo invitano nelle loro case e lo accolgono nelle sinagoghe, sono soprattutto i farisei. Certo anche loro possono essere scandalizzati dalla spregiudicatezza con cui Gesù si siede alla mensa dei pubblicani e dei peccatori, infrangendo le barriere religiose della purità e dei meriti, ma ci sbagliamo nel pensare ad essi come a persone distanti dalla povera gente o che disprezzavano l’am ha-arez, i contadini ignoranti della Legge: i Rabbini di Javne dicevano: io sono una creatura e l’am ha-arez ( il popolo contadino ignorante della Torah) è una creatura, io lavoro in città e lui lavora in campagna, io mi alzo per il mio lavoro e lui si alza per il suo. E non dire: io faccio molto e lui fa poco, poiché abbiamo imparato che sia che uno faccia molto, sia che faccia poco, basta che abbia il cuore rivolto verso il Cielo (b Berakot 17a). È piuttosto a Qumran che si nota la tendenza ad autoconsiderarsi come gli unici eletti, il resto santo, e a considerare gli altri, non solo i pagani ma gli stessi israeliti, come massa dannata e figli delle tenebre con i quali è interdetto il commercio. I monaci di Qumran applicavano a sé il testo di Is 60.21: il tuo popolo sarà tutto di giusti, germogli della piantagione del Signore, mentre il giudaismo farisaico fonda proprio su questo versetto la speranza che «tutto Israele abbia parte del mondo che viene» (Sanhedrin X, 1; anche Paolo resterà sempre legato a questa speranza: cfr. Rom 11.26), e pensa che anche i giusti delle nazioni avranno parte all’ ‘olam habbà. È infatti proprio l’ebraismo farisaico, il solo a sopravvivere dopo il 70, quel giudaismo universale che in Mt 23,15 viene accusato di percorrere il mare e la terra per fare proseliti — esattamente la stessa cosa che più tardi faranno Paolo e i missionari cristiani, trovando accoglienza tra quegli stessi proseliti che si erano già convertiti ai Dio d’israele.

Ma, per restare a Gesù, vorrei aggiungere che, a dispetto di tutta la polemica evangelica, è proprio con la dottrina e l’insegnamento dei farisei che si verificano i suoi contatti più significativi. Mi limito a due soli esempi, entrambi molto noti, l’osservanza del sabato e il comandamento principale della Legge. Quanto al sabato, sappiamo che una osservanza letterale della Legge vieterebbe di compiere in esso qualunque lavoro o attività, In 1 Macc 2,29ss, si narra il caso estremo di un gruppo di chassidim rifugiati nel deserto per sfuggire la persecuzione di Antioco che, attaccati in giorno di sabato, rifiutano di difendersi e piuttosto che trasgredire il precetto, preferiscono farsi massacrare, I monaci rigoristi di Qumran sono in un certo senso gli eredi di questi Asidei radicali che rifiutavano di salvare la vita di sabato: Ogni uomo vivo che di sabato cade in una buca piena d’acqua o in qualche altro posto, non si può farlo salire con una scala, con una corda o un altro oggetto (Doc. Damasco 11, l8ss). Ma il racconto di 1 Maccabei ci insegna che in quella stessa occasione un’altra parte prese la decisione di difendersi anche di sabato, e tale sarà sempre la posizione dei farisei. Il principio che «il sabato è stato dato all’uomo e non l’uomo al sabato» è rabbinico e farisaico prima che evangelico: il salvare la vita. (piqquach nefesh) prevale sempre sul sabato. Anche qui Gesù è più radicale: per lui proprio questo diventa il senso del sabato: È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o ucciderla? (Mc 3,4). Ma la preoccupazione di fondo, per l’uomo, è la stessa.

 Il comandamento dell’amore.

Il caso del precetto riassuntivo di tutta la Torah è ancor più conosciuto: Gesù è d’accordo con lo scriba fariseo nell’individuare come tale il duplice comandamento dell’amore verso Dio (Dt 6) e verso il prossimo (Lev 19). Molto nota è anche la pagine talmudica - di b. Shabbat 31a - con la risposta di Hillel al pagano: Quello che non vuoi sia fatto e te, non farlo agli altri. Questa è tutta la Torah, il resto è commento. Va’ e studia!. Qui si può notare che, in un certo senso, Hillel è persino più libero di Gesù nel riassumere tutta la Torah in una massima che non è neppure della Torah, pronunziata per giunta in aramaico. Si vede bene cioè che l’accordo non è solo di contenuto, ma anche di metodo: Gesù come i Rabbini ammette che sia possibile stabilire una gerarchia dei precetti, distinguere nella Torah tra precetti pesanti e precetti leggeri, anche se beninteso ciò non esime dal compiere anche quelli più leggeri {cfr. Mt 5,19 e Mt 23,23).

Contrariamente ad un pregiudizio troppo diffuso tra noi cristiani, l’esegesi farisaica della Scrittura non è affatto letterale, ma è estremamente libera nell’adattare e nell’attualizzare le esigenze della Legge: la stessa moltiplicazione delle prescrizioni halakiche è fatta per rendere possibile l’ubbidienza a precetti come quello del sabato che, presi alla lettera, sarebbero impraticabili. Paradossalmente, la polemica evangelica si indirizza talora proprio contro questa eccessiva libertà: Voi annullate il comandamento di Dio per conservare la vostra tradizione (Mc 7,9).

Per tornare al principio fondamentale della Torah, mi sembra che esso rappresenti il punto di massima convergenza di Gesù con il fariseismo e, al tempo stesso, della sua massima divergenza da tutte le posizioni settarie o apocalittiche, Per David Flusser, l’ebreo Gesù ha esteso sino al limite estremo la dottrina di misericordia insegnata al suo tempo da certe correnti di Farisei[6]. Anzi, secondo lui la novità di Gesù è l’insegnamento dell’amore fino ai nemici, che non ha neppure nella Torah una formulazione così esplicita (ma vedi ad es, Es 23,4-5). Tuttavia, quando Gesù dice: Avete udito che è stato detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ora, io vi dico; Amate i vostri nemici (Mt 5,43) certamente non polemizza né con la Torah che proibisce di odiare (Lev 19,17s), nè con i Farisei che non insegnano questo, ma molto più probabilmente con delle tendenze settarie o radicali. Fin dall’inizio della Regola di Qumran si impone il dovere di amare coloro che Dio ha scelto e di odiare coloro che egli ha rigettato: è questo dualismo settario tra figli della luce e figli delle tenebre che Gesù condanna. Si è davvero figli della luce e del Regno solo essendo misericordiosi come il padre nostro celeste. Sta scritto nel Talmud: Chi è misericordioso verso tutte le creature, è certamente della stirpe di Abramo.

 Dentro o fuori l’ebraismo?

In conclusione, Gesù si lascia difficilmente inquadrare sia come un monaco o un battista del deserto, sia come un rabbi di tendenza farisaica, sia tanto meno come un rivoluzionario zelota; egli ha sempre qualche cosa in comune e qualche cosa di diverso rispetto alle varie figure del giudaismo del suo tempo. Il suo insegnamento in genere è più radicale e intransigente di quello farisaico. e questo lo avvicina alle posizioni rigoriste dei monaci del deserto o delle correnti apocalittiche, ma è anche soprattutto misericordioso, e questo gli impedisce di essere settario. Per citare ancora Flusser Gesù aveva le sue radici nel giudaismo universale e non settario, e dunque in una ideologia e in una prassi che erano quelle dei farisei[7], ma egli stesso ammette che non si può riconoscere semplicemente come un fariseo questo rabbì carismatico e taumaturgo formatosi alla scuola del Battista nel deserto. La domanda decisiva che andrebbe posta circa l’identità di Gesù riguarda il profetismo della sua figura, quel carattere profetico, in stretta relazione con la manifestazione dal Regno di Dio, che egli certamente ha rivendicato: La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora viene annunziato il Regno di Dio (Lc 16.16).

Perciò i cristiani parlano volentieri di un «anarchismo» di Gesù, di una sua eccedenza o superamento dell’ebraismo. È un’affermazione facile a farsi ma difficile da provare: in che cosa Gesù uscirebbe dall’ebraismo, rispetto a quali autorità può esser detto anarchico? Per quale ragione gli aspetti più radicali, o anche più apocalittici, del suo Vangelo non sarebbero più compatibili con l’ebraismo?

Siccome le risposte a simili domande dipendono in ultima istanza da ciò che si intende per ebraismo, preferisco che siano degli ebrei a rispondere. Ancora nel 1922 J. Klausner rispondeva così: il Popolo di Israele, nel suo insieme, non poteva vedere in ideali pubblici come quelli di Gesù che un sogno irreale e pericoloso. La maggioranza non poteva assolutamente accettare l’insegnamento di Gesù, bevuto alla fonte del giudaismo profetico e, fino a un certo punto, farisaica. Egli faceva del giudaismo qualcosa di così estremo che questo diventava, in un certo senso, un non-giudaismo[8]. Credo che oggi gli autori ebrei che ho nominato rispondano assai diversamente: certo comunque è molto diversa la loro valutazione del realismo del messaggio di Gesù. Molta cose, in bene o in male, sono cambiate dal ‘22 ad oggi tali da modificare profondamente il giudizio ebraico su Gesù, e quello cristiano su Israele. La domanda alla quale siamo tenuti a rispondere noi cristiani è un’altra, e cioè: fino a che punto la nostra fede cristiana è veramente conciliabile con l’ebraismo di Gesù? Non abbiamo noi sradicato Gesù dall’ebraismo per innestarlo nelle nostre cultura e ideologie, anziché essere noi ad innestarci sulla radice santa di Israele, come voleva Paolo (Rom 11,16-24)?


[1] 0. Clément. Dialoghi con Atenagora. Gribaudi, Torino 1972, PD- 159-161

[2] Sono parole dette da Buber in un colloquio personale con Flusser e che quest’ultimo riporta nel suo libro: Jésus, Seuil, Paris 1970, p- 43

 [3] R. Aron, Gli anni oscuri di Gesù, Mondadori, Milano 1978 (ed. francese 1963); Id., Cosi pregava l’ebreo Gesù, Marietti, Casale Monf, 1982 (ed. francese 1968); Sh. Ben Chorin, Bruder Jesus, Miinchen 1967 (traduzione francese da Seuil, Paris 1983); P. Lapide, Der Rabbi von Nazaret, Trier 1974: Id,, lst das nicht Josephs Sohn?. Mùnchen-Stuttgart 1976 (traduzione francese da Desclée, Paris 1979); D. Flusser, Jesus, Hamburg 1968 (esiste anche una traduzione italiana ma sconsigliabile, oltre che difficilmente reperibile; io cito secondo la traduzione francese, vedi n. 2); G. Vermès, L’ebreo Gesù, Seria, Roma 1983 (ed. inglese 1973).

[4] P. Lapide in: H. Kung-P. Lapide. Gesù, segno di contraddizione. Un dialogo ebraico-cristiano, Queriniana, Brescia 1980, p. 24s.

[5] Ch. Perrot, Jésus et l’histoire, Desclée, Paris 1979, p. 131. Questo studio mette molto bene in rilievo l’apporto battista necessario per ricostruire la figura di Gesù; un po’ meno, invece quello farisaico e sinagogale che pure l’autore conosce altrettanto bene.

[6] Questa è una delle tesi fondamentali del suo libro su Gesù. Le parole citate sono tratte da un’intervista rilasciata a V. Messori per la rivista Jesus, n. 5, maggio 1980.

[7] Jésus, cit. p. 58s.

[8] J. Klausner, Jesus of Nazareth, London 1925, p. 376 (ma la prima edizione ebraica dell’opera risale al ‘22).