|
RIFLESSIONI
NATALIZIE
Lilia Sebastiani
(ROCCA
01/02/06)
Riflessioni,
cioè, affiorate nell'osservare con un'ombra di infantile tristezza le
lucine di Natale ancora appese ma non più accese nelle
strade; riflessioni clamorosamente fuori tempo, da un certo punto di
vista, ma che riguardano il tempo e che, per loro natura, non sarebbero
possibili né 'prima' né 'durante'... Strana tristezza insita nelle cose
di Natale dopo che il loro periodo di vita si è concluso; memorie di
infanzia, forse, ma memoria di sentimenti più che di eventi e di cose:
e, come tante altre memorie, il più e il meglio del loro contenuto, anche
quando sembra guardare all'indietro, è rivolto verso un misterioso
'avanti' a cui di solito non si pensa. Segni esterni, che tornano ogni
anno, che nei momenti 'no' vengono vissuti come esteriorità, vuoto e
obbligo, e tuttavia portano con sé uno spirito, una storia, un significato
palpitante sotto la scorza misera delle consuetudini, e hanno a che fare
con bisogni umani autentici, anche se quasi sempre inconsapevoli.
Festa
tardiva e antica
Ovvio e conosciuto, domestico e legato ai ricordi, il Natale è una
festa strana: forse oggi lo si comprende più di una volta, perché la
possibilità di viverlo autenticamente è diminuita per tutti, mentre è
cresciuto il bisogno di ciò che il Natale rappresenta. Forse non è
'carenza di spirito', comunque è difficile dirlo (lo spirito non si
misura); piuttosto difficoltà crescente di concentrazione, crisi nei
rapporti con il tempo.
Tanto
al di sotto della Pasqua storicamente e liturgicamente, il Natale
sembrerebbe superarla dal punto di vista delle emozioni. La Pasqua è la
festa fontale del nostro essere cristiani, ma quanti lo sanno, anche fra
i 'semicredenti', anche fra quelli che vanno in chiesa? Quante persone, se
venisse loro chiesto qual è la festa religiosa più importante
dell'anno, risponderebbero correttamente che è la Pasqua, seguita dalla
Pentecoste? E, tra i non molti in grado di dare la risposta giusta,
quanti 'sentono' ciò che 'sanno'? Il Natale si vede, intorno a noi, più
della Pasqua; si sente, dentro di noi, più della Pasqua; ha una maggior
presa sulle emozioni. O meglio, la moderna retorica del Natale è la
traduzione un po' artificiosa e commerciale di qualcosa che è autentico e
profondo, ma forse proprio per questo perché affonda le sue radici un
po' più giù della consapevolezza - difficile da esplicitare. La
Pasqua si celebra da subito nella giovane chiesa, e il Natale no.
L’evento cristiano ha origine con la morte di Gesù e la sua vittoria
sulla morte; invece tutto ciò che riguarda le origini di Gesù, la
nascita e i primi anni, prende forma molto più tardi, in modo indeciso
e incerto. E quando cadesse il suo compleanno nessuno certo lo sapeva,
nemmeno tra i seguaci della prima ora; nemmeno ci si pensava. A
Roma, verso la fine del IV secolo, quando il cristianesimo è già
religione di stato, la data del 25 dicembre è consolidata, anche se si sa
che non corrisponde alla data della nascita di Gesù. (Anzi, allora come
oggi qualcuno osserva che, se si prende per buona la notizia di Luca
secondo cui, quando nasce Gesù, "vi erano in quel luogo dei pastori
che trascorrevano la notte nei campi», doveva trattarsi della buona
stagione e non dell'inverno). La data viene sostenuta dalla chiesa
perché coincide con una festa pagana molto sentita dalla gente in età
imperiale: quella del Natalis Solis lnvicti, la (ri)nascita del
sole. Una festa solstiziale, è chiaro, collocata nel momento in cui le
giornate ricominciano ad allungarsi. E questa festa della rinascita del
sole cadeva a sua volta nel periodo in cui a Roma vi era stata sin dall'età
repubblicana l'abitudine di celebrare i Saturnali, con banchetti,
scambio di doni (strenae) e con l'uso che per un giorno i padroni
servissero a tavola i loro servi. Insomma un periodo dell'anno in cui la
gente è abituata a celebrare la .vita e ad avvalorare i rapporti
umani. E questo è importante; anche se la consuetudine, come ha la sua
forza, ha i suoi rischi insiti nel fatto stesso di essere consuetudine. In
seguito la festa di Natale e le sue motivazioni acquisiscono un più
deciso spessore teologico: soprattutto le eresie cristologiche
dell'antichità e i quattro grandi Concili ecumenici (Nicea, Efeso, Calcedonia e Costantinopoli) inducono ad accentuare l'importanza del
Natale come festa dell’Incarnazione.
La
nostra epoca, che per certi aspetti potrebbe apparire accentuatamente ed
esclusivamente carnale - almeno per chi confonde la carne con la scorza
corporea, con il 'fuori'; ma nella Scrittura il suo significato è un altro!
-, tutto sommato teme la carne, intesa come l'elemento fragile e perituro
del nostro essere; ed è meno incline a comprendere l'incarnazione di
quanto potesse fare un neoplatonico. Strana
dinamica di feste pagane che poi vengono cristianizzate e poi,
secolarizzate, si ripaganizzano... Ma nelle realtà umane è sempre
difficile separare con chirurgica precisione il pagano dal cristiano, e
anche il 'naturale' dal 'religioso'.
Bisogno
di simboli e figure
Invece sempre più diviene chiaro che uno sguardo di fede è soprattutto
uno sguardo capace di aprirsi ai segni oltre le apparenze, senza però
trascurarle.
Crediamo che il simbolo natalizio primordiale, più ancora del presepio e
dell'albero, sia la luce che rompe le tenebre: è impensabile un Natale
senza luci, senza candele. La dialettica luce-buio è ancor oggi l'aspetto
più emozionante del nostro Natale, che sembra aver bisogno del buio
circostante per vivere. Il 'giorno' di Natale non evoca molto, a parte forse
i lunghi e pesanti pranzi festivi. È quando scendono le tenebre che il
presepio e l'albero di Natale cominciano veramente a esistere e respirare;
nessuno ha mai avuto l'idea di pensare 'diurna' la nascita di Gesù, anche
se l'ora è sconosciuta quanto la data, e l'annuncio dell'angelo è stato
sempre pensato come qualcosa che irrompe nelle tenebre. Vi
entra il racconto di Luca, sempre a proposito dei pastori: «la potenza
del Signore li avvolse di luce», dove forse l'evangelista pensava al passo
di Isaia che sentiamo proclamare nella notte di Natale: «Il popolo che
camminava nelle tenebre vide una grande luce, su coloro che dimoravano in
terra tenebrosa una luce rifulse». E qualche tardiva responsabilità va
ascritta pure ai Magi: senza dubbio è più difficile seguire una stella
di giorno. È diffusa la convinzione che il simbolo propriamente cristiano
del Natale sia il presepio, mentre l'albero sarebbe un simbolo pagano,
caratterizzato da una certa esteriorità... Così, perché sembra
'neutrale' di contro al Presepio più compromettente sul piano della
fede, viene sistematicamente allestito in locali pubblici e da chi fa
professione d'indifferenza religiosa. Per gran parte qui operano i nostri
schematismi mentali e anche un po' il difetto di conoscenze.
Il presepio intanto non è un simbolo ma dichiaratamente una
rappresentazione, più o meno realistica: all'interno della rappresentazione
poi si possono riconoscere diversi simboli, ma questo è un discorso più
sottile e, di solito, inconsapevole. Certo ha una data di nascita e un
inventore, Francesco d'Assisi, vero esperto in tutto quanto intendiamo o
dovremmo intendere nel dire 'incarnazione': uomo spirituale come pochi
altri, e perciò estremamente concreto. Noi abbiamo popolato di figurine i
nostri presepi, Francesco non vi aveva nemmeno pensato: aveva voluto
solo la stalla e gli animali, il 'contesto' insomma, e un contesto povero.
Se poi si trovò tra le braccia il Bambino, quello fu il vero frutto, il
culmine di una spiritualità incarnata. Sappiamo
che poi gli accessori, le figurine di persone e animali, gli edifici (spesso
francamente improbabili, compresi palazzi e chalet con il tetto spiovente)
sono aumentati fino al virtuosismo, fino a diventare fine a se stessi e a
smarrire qualsiasi collegamento con il senso. Chi scrive confessa di non
amare per nulla, ad esempio, i presepi napoletani, quantunque spesso di
grande pregio artistico: troppo esteriorizzati, 'centrifughi', per così
dire, rispetto al mistero che dovrebbero mediare, anche assurdi talvolta
per la presenza di certi accessori tipo pesci e pescatori e pescivendoli,
familiari ai napoletani ma ben difficili da trovare allora nelle vicinanze
di Betlemme; o maialini, che certo in quell'ambiente non si allevavano
in quanto animali impuri..., ma questo è già un particolare colto! O con
certi personaggi legati all'attualità più effimera, più da carnevale di
Viareggio che da natale. Eppure, lo riconosciamo, un significato spirituale
molto lato, al di là quanto può far sorridere o irritare, c'è. Come se
inconsapevolmente anche i presepi più sbagliati illuminassero un aspetto
fondamentale dell'Incarnazione: che non avviene in un contesto scelto e
coerente, ma in una situazione caotica e complessa, disarmonica e contraddittoria,
con troppe cose - comprese dunque quelle improbabili e disturbanti -, con
elementi che distraggono..., con troppo del superfluo forse, e poco del
necessario. È in questa realtà umana complicata e contraddittoria che
esplode la salvezza di Dio, non in una realtà ben pronta ad accoglierla,
già unificata e messa in ordine. Quella è semmai la nostra nostalgia del
futuro, la nostra utopia-progetto.
E
l'albero non è poi così pagano: almeno, non più di quanto lo siano
l'acqua o il fuoco, che 'esistono' e 'significano' da sempre e tuttavia
sono così importanti per noi e anche nelle Scritture, anche nella
celebrazione dei sacramenti. L’albero è un archetipo, e se è ben prima
del cristianesimo, non per questo è 'fuori', perché è simbolo di vita
cosmica - evoca l'Asse del mondo, lo scorrere delle stagioni... - e, in
modo privilegiato, di vita umana: forse perché, come l'essere umano, ha
nella terra le sue radici ma cresce protendendosi verso il cielo.
Talvolta
riconosciamo in noi un' eco lontana dello smarrimento che dovevano provare
gli uomini primitivi nei giorni solstiziali, soprattutto nelle regioni del
nord (infatti l'albero di Natale è nordico, nelle sue origini, e non
mediterraneo): quando si vedeva il sole, sempre più pallido e debole,
sorgere sempre più tardi e tramontare sempre più presto e scaldare sempre
meno. Ci sarà stato un tempo in cui i nostri remoti antenati hanno avuto
paura che il sole alla fine non sarebbe più venuto fuori, che il sole
stesse morendo? Poi però le giornate si allungavano di nuovo... In questo
contesto si diffonde l'usanza di adornare votivamente un albero, augurio e
promessa della vita cosmica che tornerà a crescere dopo l'eclissi apparente.
L'albero di natale è un sempreverde, secondo la tradizione. Forse
funzionerebbe come simbolo anche un albero a foglie caduche: «non è
morto, ma dorme», e le sue foglie torneranno.
Il
Natale è festa della vita che rivive avvalorandosi. Ma anche la Pasqua,
potremmo obiettare, è festa della vita. Sì, però (al di là delle
celebrazioni agricole che costituiscono la sua remotissima origine prebiblica), la Pasqua cristiana - appunto per questo meno immediatamente e
diffusamente sperimentabile del Natale - parla di un'altra vita:
che non è quella naturale biologica, anche se è misteriosamente in
continuità con essa; una vita su cui la morte non ha più potere. La
resurrezione non avrebbe senso senza incarnazione, ma si spinge oltre.
Forse per questo nessuno mai ha avuto l'idea di allestire l'equivalente di
un 'presepio' pasquale? Chi ha tentato di rappresentare qualcosa, ha
dovuto necessariamente fermarsi alla tragedia umana: il Golgota, il
sepolcro. Non è certo rappresentabile il giardino della resurrezione, che
è insieme recupero dell'Eden perduto e via aperta sul futuro di Dio. Del
resto il vero segno della Pasqua è un'assenza: il sepolcro vuoto, un corpo
che non si trova...
Una
provocazione
Un intelligente articolo apparso sul Corriere dell'Umbria
affermava che sarebbe il caso di spostare la data della celebrazione cristiano-liturgica
della nascita di Gesù per reagire contro una società consumistica e
soprattutto abituata a tutto ingoiare e stritolare, a banalizzare tutto.
Proposta certo più profetico-provocatoria che reale e praticabile: se
infatti è giusto e condivisibile il disagio da cui scaturisce, se corretta
e persuasiva risulta l'argomentazione, la proposta un po'
paradossalmente convince e ci stimola solo rimanendo 'proposta'. Un'eventuale
traduzione in pratica, difficoltà a parte, potrebbe dar luogo a uno
squilibrio e a un vuoto più sconcertanti delle contraddizioni di ora. È
vero, per la maggioranza della gente i giorni di Natale sono nel
migliore dei casi di riposo e di atmosfera genericamente festosa; nel
peggiore, e lo sappiamo, possono essere giorni di tristezza, solitudine e
tensione accentuate, in cui l'esteriorità predomina con i suoi obblighi
(compreso l'obbligo del dono da fare, o peggio da 'ricambiare', mentre il proprium
del dono sarebbe la gratuità!), in contraddizione con il senso profondo
della festa: che è di avvalorare la profondità dell' essere, ricaricando
di senso anche lo scorrere dei giorni comuni. Un
segnale forte sarebbe effettivamente opportuno, ma come segnale; forse
togliere la memoria liturgica del Natale a questi giorni di festa d'inizio
inverno significherebbe privarli completamente di anima. E già mi pare di
sentire affiorare un' obiezione, è anche una parte di me ad
avanzarla: «Perché, dov'è ora l'anima di questo Natale?». Non lo so.
Certo non è un'anima facile da incontrare, da riconoscere - nemmeno in
chiesa, nemmeno alla messa di mezzanotte della maggior parte delle nostre
parrocchie -; ma esiste, e non appartiene interamente a noi, e certo non è
semplicemente la somma, insieme infinita e povera, delle anime nostre.
È un'anima che a volte intuiamo a sprazzi, più come nostalgia che come
realtà sperimentabile, un'anima latente e a volte, sì, dimenticata; a
volte banalizzata, il che ci dispiace più ancora; ma anima, che è lì
in qualche modo e che agisce nel profondo e che forse darà frutto
inaspettatamente nel momento che non sappiamo. Non
è togliendo l'anima che si aiuta il risanamento del nostro mondo malato
di dispersione; ma la proposta provocatoria è utile in quanto sottolinea
con forza il rischio di perdersi. Sentiamo sempre più necessario
lavorare in direzione di un 'supplemento di anima'.
|