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CHIESA IN CLASSE OPERAIA
Lettera a Mons. Cocchi da poco eletto Vescovo di Parma. Luglio 1982.

 Padre, in questo periodo di ferie ho più tempo per raccogliere alcune riflessioni sulla mia vita di uomo, cristiano, prete, prete-operaio. Così ho deciso di continuare il nostro dialogo anche per iscritto(omissis).
Lo scrivere mi obbliga a puntualizzare meglio le mie idee e penso che anche per Lei serva a mettere a fuoco la mia persona, gli ideali, i problemi, le crisi, le speranze, i progetti. Quando ci incontreremo di persona avremo così materiale più preciso  di conversazione ed anche Lei avrà l'opportunità di esprimermi valutazioni e giudizi; è mio desiderio farmi conoscere ma anche conoscere Lei perchè un dialogo fraterno è a doppio senso. Nel mio primo incontro sono rimasto colpito e quasi scosso dal Suo atteggiamento di ascolto e di profonda accoglienza che esprimeva la paternità dell'apostolo della nostra Chiesa  e la fraternità dell'uomo e del confratello.
Sono incoraggiato quindi a coltivare con lei un rapporto di fede e teologico, ma incarnato in sentimenti di simpatia e di amicizia in modo che anche nella nostra comunione ecclesiale si viva quel radicamento della fede nel corpo, del teologico nell'umano, dell'invisibile nel sensibile, della realtà nel segno.
Premesso questo, tento una riflessione sul mio vivere:
 

1- Nel mio colloquio con Lei ho tracciato quella che io chiamo la "lunga genesi" del mio essere prete-operaio. Il punto di partenza che ha dato una svolta alla mia collocazione nel servizio ecclesiale è chiaramente di matrice "missionaria". L'aver portato dentro di me per lunghi anni questo segreto, l'averlo perseguito con testardaggine, l'aver vissuto per 4 anni in ambiente formativo missionario mi ha segnato indelebilmente preparandomi ad un futuro di vita "esposta" e "proiettata ai confini" abituandomi a pensarmi presente in spazi umani dove si deve ancora seminare, dove si è minoranza, dove l'annuncio della carità precede quello della fede, dove l'incontro con le culture laiche e altre religioni richiede tolleranza, dove la condivisione della povertà cancella il clericalismo, dove lontane sono le furbizie delle alleanze col potere, dove diaspora-croce-obbedienza-liberazione-peccato sono un fatto prima che una teologia.
Forse c'è una caratteristica negativa, o almeno ambivalente, ed è che questa "missionarietà" respirata era ancora in parte condita con una buona dose di colonialismo predicatorio e di accattivante paternalismo con lo scopo zelante di "conquistare le anime". Ed io so che andare in classe operaia con questo atteggiamento non è giusto(perchè non è solo la classe operaia che va portata in Chiesa, ma anche la Chiesa va portata in classe operaia) e non è facile(perchè sono saltati tutti gli schemi di una "via corta alla fede", legati ad ipotizzare facili magie pastorali o a meccanismi deterministici di conversione).
Ho quindi dovuto riconvertire e ripensare la "missione" sia in base alle diverse condizioni culturali e religiose degli uomini a cui mi rivolgevo(che non erano africani o brasiliani, ma "gente di Parma") in termini di crociata conquistatoria, ma di umile testimonianza, di silenziosa penitenza per gli errori storici della mia Chiesa e di lunga pedagogia all'ascolto per ridiventare uomo e cristiano.
Questa fase di ripensamento sulla missione mi vede tuttora impegnato con chiaroscuri frequenti e con improvvisi rigurgiti di passato che mi dimostrano di non essere ancora convertito in profondità: sono ancora molto attratto da gente con cui si può fare catechesi e pastorale d'élite, sono prostrato nei miei periodici bilanci dal senso di inefficacia e improduttività visibile della mia pastorale, desiderando molto raccogliere più che seminare; mi dedico ancora con molte riserve alla classe operaia verso cui nutro ancora sospetti e giudizi negativi normalmente circolanti negli ambienti-bene; vivo ai confini tra le minoranze, ma con il cuore al centro "dove si conta"; sono intollerante ancora verso chi sfugge ai miei programmi e schemi.
Sono quindi ancora in questa fase fluida di crescita come uomo-cristiano-pastore. In parte è un bene, in parte è una sofferenza per me e per gli altri. Insomma, nella mia vita i giochi non sono ancora fatti.

2- In questi anni (Croce Rossa,Parmasole,Edilbox) ho sentito con sofferenza un ritornello : "Tu sì, ma gli altri...". In questa frase, ripetuta a me e a tutti i preti operai da centinaia di compagni di lavoro, sta una chiave preziosa di sapienza pastorale. Noi soli, senza una Chiesa con noi, rischiamo di diventare un pò troppo profeti o un pò troppo "show mans".

Di fatto la storia dei preti operai francesi e italiani ha avuto 2 fasi: diffidenza - indifferenza.

 La diffidenza (diventata in certi casi ostracismo) sorse quando le osmosi culturali erano più effervescenti e si temeva che il fenomeno, accorpato con altri movimenti di dissenso, avesse potuto inquinare l'immacolata coltre bianca che copriva e proteggeva le cristianità pre-conciliari. 

L'indifferenza, che serpeggia oggi nonostante significativi ma limitati cenni di disgelo, nacque parallela alla generale sgasata e al grande ritorno a casa dopo il cessato allarme. Novecento preti operai in Francia e trecento in Italia, cosa sono di fronte alle masse che si raccolgono nei pellegrinaggi e attorno al Papa o di fronte al moltiplicarsi di obbedienti collaboratori laici?

Diventati innocui e rimasti pochi, siamo stati colpiti dal più amaro degli anatemi: il lasciarci fare finchè morte non giunga. Oggi siamo considerati un binario morto non più percorribile.

Se la Chiesa giudica il valore dei movimenti dal numero degli iscritti o dei proseliti ritorniamo alla vecchia teologia ebraica del numero dei figli come segno di benedizione di Jahvè. Ma dove mettiamo allora le sante e poche donne sterili o vergini e il santo Giobbe nel letame? Sì, è vero, siamo stati causa di preoccupazione e di sofferenza, ma avevamo e abbiamo dentro un segreto che fino a ieri abbiamo gridato sui tetti e che oggi abbiamo incominciato a sussurrare se non addirittura a consumare nel silenzio. Lasciandoci nell'isolamento, la nostra efficacia ricade su di noi e moriremo stimati ed amati solo dai compagni di lavoro, quella piccola parrocchia di 10 anime con cui abbiamo fatto Chiesa per tanti e sepolti anni.
Ma noi non andiamo a cercare glorie personali. Noi coltiviamo un grande desiderio, una segreta utopia: che le Chiese ci ascoltino perchè tutta la Chiesa ripensi la sua attività evangelizzatrice, caritativa e sacramentale misurandosi sui problemi, linguaggi, speranze e crisi dei milioni di battezzati segnati da 8-10 ore quotidiane di lavoro per tutta una vita.
Penso quindi che dovremo studiare a lungo una "pastorale del lavoro" articolata, continua, perchè i lavoratori sentano che una comunità intera vive fra loro, si costruisce con loro, " è loro ".
Ritengo quindi urgente una convocazione allargata di membri e militanti attivi per far sorgere una Consulta o un Centro o un Movimento che sia propulsore di iniziative e programmi ma soprattutto stimoli una spiritualità del lavoro, della militanza e della solidarietà operaia.

Ritengo indilazionabile ridare vita ad ACLI e GIOVENTU' ACLISTA con un delicato ma deciso recupero di una Segreteria giovane che diffonda a Parma la conoscenza delle linee direttrici della presidenza e segreteria nazionale, che crei in ogni parrocchia dei gruppi di formazione per operai e apprendisti e che sappia, in seguito, dare apporti positivi e originali al movimento aclista nazionale. 

Ritengo necessario acculturare il clero su problemi del mondo del lavoro, sia per una cultura laica remotamente sempre necessaria sia per un aggiornamento sui rapporti tra etica e lavoro ( evasione fiscale, lavoro straordinario, riduzione dell'orario, part-time, tempo libero, doppio lavoro, lavoro femminile, protezione infortuni e salute, lavoro garantito e non garantito, gestione del salario, obiezione fiscale: sono solo esempi dove le vecchie virtù evangeliche e i vecchi peccati si mascherano sotto nomi nuovi ma per i quali occorrono urgenti aggiornamenti per la predicazione e le confessioni).
3- Dopo una adeguata azione diretta e prossima sul mondo operaio, penso che si debba agire su settori che apparentemente sembrano remoti, ma che di fatto possono influire a rendere difficile o facile l'accesso dei "lontani" alla Chiesa e l'incarnazione della Chiesa locale in ambienti allontanati o autoesclusi
(omissis)

 A Parma si vive in un ambiente piccolo-borghese, ma marcatamente segnato da una subdola conflittualità ideologico-politica. La Resistenza e le elezioni del '48 hanno lasciato un'impronta di fierezza, di solidarietà, ma anche di dolorose fratture tra "social-comunisti" da una parte e "cattolici" dall'altra. Il mondo politico cattolico ha dato alla società parmense ed italiana ed anche alla Chiesa, uomin illustri e stimati, tuttavia serpeggia una memoria storica di reciproca scomunica: la democratica lotta tra partiti è diventata impermeabilità reciproca tra credenti militanti nel partito cattolico e credenti o non credenti militanti nelle aree di sinistra. Io credo che la "scelta religiosa" fatta dall'Azione Cattolica nazionale e dalle ACLI nazionali sia un tentativo di scorporare la Chiesa dalla conflittualità dei partiti. Molti laici validi e pieni di fede sono diventati consiglieri, responsabili, uomini-chiave della Pastorale e della Chiesa parmense, ma sono troppo individuabili nella militanza DC. La Chiesa così rischia di identificarsi con essa.

"VITA NUOVA", ad esempio, a volte rischia di essere più un organo di partito(di una corrente del partito) che un giornale della Chiesa locale e spesso ho sentito compagni e compagne, amici e fratelli lamentarsi per le continue ed eccessive critiche alle scelte delle Amministrazioni locali ed ai suoi uomini. E' necessario essere profeti di Dio e quindi saper cogliere il male, sì, ma anche il bene e seguire l'impulso dello Spirito che cura ciò che è ferito, che chiarisce ciò che è torbido, che vitalizza ciò che languisce; ma soprattutto sarebbe bene che il nostro Settimanale fosse uno spazio di dibattito più libero per "guardare dentro la Chiesa" senza, d'altra parte, fare dell'ecclesiocentrismo.
Occorrerebbe quindi scegliere laici di fede e carità, ma "un pò più laici" o un pò più "tecnici", cioè meno impegolati nella militanza di partito e anche un pò più rappresentativi delle varie espressioni di fede e di servizio nella Chiesa locale.
Negli anni passati troppe persone o gruppi si sono sentiti messi al margine. Forse siamo ancora in tempo per offrire e ricevere.
E così potrebbe essere per il clero: la troppo lunga permanenza di confratelli in posti-chiave della diocesi e di altri in posti di confine potrebbe rischiare di creare l'alto e il basso clero e di impedire il rinnovamento di idee e prassi.
(Omissis)