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22 Gennaio 2017 - 3a domenica tempo ordinario Preghiamo. O Dio, che hai fondato la tua Chiesa sulla fede degli apostoli, fa’ che le nostre comunità, illuminate dalla tua parola e unite nel vincolo del tuo amore, diventino segno di salvezza e di speranza per tutti coloro che dalle tenebre anelano alla luce. Per Cristo nostro Signore. Amen
Dal
libro del profeta Isaìa 8,23b-9,3 Sal 26 Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza: di
chi avrò timore?
Una cosa ho chiesto al Signore, questa
sola io cerco:
Sono certo di contemplare la bontà del
Signore nella terra dei viventi.
Dalla
prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1,10-13.17
Dal
Vangelo secondo Matteo 4,12-23
La mia Galilea.
La prima lettura è stata scelta per una
coincidenza stretta con il Vangelo nell'allusione geografica alla zona
di Zabulon e Neftali nella quale Gesù si
stabilisce e dove inizia la sua attività pubblica. Zabulon e Neftali
sono i nomi di due tribù settentrionali deportate in Assiria dopo
l'occupazione di Tiglat-Pileser III nel secolo VIII a.C. al tempo del
profeta Isaia; i nomi erano passati dalle tribù alla terra che
occupavano. Furono regioni-simbolo di una shoah, di un olocausto. E
ancora oggi descrivono simbolicamente il fatto che anche noi abitiamo
una terra di iniquità. «Siamo barbari, tutti. Che cosa è il peccato
originale se non il fatto che nasciamo tutti cattivi? Non si nasce mai
noi stessi; nascendo entriamo in una condizione di schiavitù che
consiste nell’insieme di relazioni che un neonato contrae nascendo in
una famiglia, in un sistema di rapporti. Senza che lo voglia, il peccato
lo occupa, l'ingiustizia e l'abuso lo allattano. Noi siamo in una
condizione di malattia, le tenebre ci coprono, e più scendiamo alle
radici di noi stessi, più sentiamo che viviamo immersi nelle tenebre, ma
in noi c'è la tendenza verso la ricerca della luce. Abbiamo dentro di
noi una sete appassionata di vita: è il nostro voler essere liberi
all'interno di grovigli di schiavitù su cui ci piace non gettare mai gli
occhi perché ci farebbero paura»[1]. Gesù inizia la sua attività prendendo come riferimento i segni dei tempi. L'evangelista sembra far notare che Gesù non iniziò quando volle, ma quando vide che avevano “consegnato” (arrestato) Giovanni. Gesù reagisce di fronte ai fatti della storia che lo circonda. Non compie una missione già programmata preventivamente e che deve essere realizzata con indifferenza a ciò che succede. Queste annotazioni (“si ritirò nella Galilea e venne ad abitare a Cafarnao”) non obbediscono a un semplice desiderio di precisazione geografica, ma riporta un fatto che senza dubbio costituì, per le attese religiose del tempo, una sorpresa, se non uno scandalo. Difatti era logico aspettarsi che l’annuncio messianico partisse dal cuore del giudaismo, cioè da Gerusalemme, e invece partì da una regione periferica, generalmente disprezzata e ritenuta contaminata dal paganesimo (“Galilea delle genti"). Tanto è vero che Matteo sente il bisogno di spiegare questa scelta di Gesù, citando per esteso un passo del profeta Isaia (8,23-9,1). «Una bella lezione alle comunità cristiane di tutti tempi, quando per i più svariati motivi rischiano di chiudersi in qualunque tipo di orgoglioso esclusivismo e autosufficienza. Dio è l'Inaspettato, il Sorprendente, e il suo modo di operare è spesso imprevedibile, capace di luminosa fantasia. Matteo lo aveva già fatto intendere scrivendo la genealogia di Gesù dove appaiono delle donne non giudee o poco raccomandabili (Matteo 1,1-17: Racab, Tamar, Rut, Betsabea). Anche nella narrazione della sua nascita appariva stridente il contrasto fra gli adoranti Maghi che giungono dall'oriente e il turbamento di "tutta Gerusalemme" (2,4)»[3]. Ora, alla fine della prima parte del Vangelo di Matteo, ritroviamo i pagani (4,15), inconsapevoli protagonisti del diffondersi della buona notizia a Israele e a tutta l'umanità. Il contenuto, il tono dominante della predicazione di Gesù è la venuta del Regno di Dio, come buona notizia che invita al cambiamento. Gesù non fu un predicatore dottrinale teorico, né un maestro di sapienza religiosa, né un asceta, ma un profeta dominato dalla urgenza e passione per il Regno di Dio che egli annunciava come imminente. Non era solo un annuncio, ma una commozione (con-mozione= un movimento unitario), una conversione: "cambiate vita e cuore perché il Regno dei cieli è vicino" traduce la Bibbia Latinoamericana. Qui c'è una doppia direzione: bisogna cambiare (convertirsi) "perché" viene il Regno di Dio, e anche bisogna cambiare "affinché" venga il Regno di Dio, per rendere possibile che venga; perché, cambiando, già viene questo Regno. Sono le due dimensioni: attiva e passiva, recettiva e provocatoria, di contemplazione e di fatica, senza unilateralismi. Il carattere concreto della prassi adottata da Gesù, che non è quella di trasformare da solo la società, con la propria pratica; ma anche quella di convincere gli altri ad assumersi il compito. E il suo appello raggiunge gli uomini nel loro ambiente ordinario, nel loro posto di lavoro. Nessuna cornice “sacra” per la chiamata dei primi discepoli, ma lo scenario del lago e lo sfondo della dura vita quotidiana. Per farsi strada, la forza trascinante di Cristo non ha bisogno di luoghi privilegiati e raggiunge anche la quotidianità della vita del lavoro. Anzi, a volte sembra voglia sorprenderci chiamando in momenti poco propizi, quando più si è affaccendati a fare altro: qui con le reti, per il pubblicano Matteo quando sta contando i soldi (9,9), per Paolo mentre sta andando a perseguitare i cristiani (Atti 9,1). La conversione è sempre una sfida a riconoscere il primato della propria appartenenza Signore in mezzo alle mille occupazioni della vita. La sensibilità verso tutto ciò che è straordinario e miracoloso conduce molti a collocare l'esperienza di Dio fuori dalla vita quotidiana. Certo la vita quotidiana ha una sua complessità. Il lavoro, lo studio, lo svago, i figli e gli acquisti impegnano significativamente il tempo. Le persone sperimentano la complessità delle cose nelle quali sono coinvolte e ritagliano alcuni tempi, più o meno estesi, da dedicare al bisogno religioso ancora presenti in loro. Ritenere la quotidianità come luogo per accorgersi della presenza del Signore, diventa un'impresa ardua, eppure il Vangelo afferma che l'incontro di Gesù con i primi apostoli avviene mentre questi stavano pescando o aggiustando le reti. Conseguentemente nella nostra società occidentale, che ha assunto percorsi profondamente complessi, va ancora affermata la capacità del Signore di raggiungere le persone nel loro vissuto Nel racconto emergono due tratti: la condivisione (il discepolo è chiamato a condividere la via del Maestro: “Seguimi”) e il distacco (“e subito lasciarono le reti”). Ma i tratti essenziali – che già definiscono compiutamente la figura del discepolo (il resto del Vangelo non farà altro che precisarla) – sono quattro. Primo: la centralità di Gesù. Sua è l’iniziativa (vide, disse loro, li chiamò): non siamo noi che ci proclamiamo discepoli, ma è Gesù che ci trasforma in discepoli. E ancora: il discepolo non è chiamato a impossessarsi di una dottrina, ma a solidarizzare con una persona (“seguitemi”). Dice il monaco Enzo Bianchi: «…il cristianesimo ha vissuto su una ambiguità, quella di “essere” cristiani senza doverlo “diventare”, di essere praticanti senza vivere veramente un cammino di fede personale. La coincidenza fra fede e società non esiste più, e la nuova situazione di minoranza dei cristiani è una chance per manifestare che la loro fede è vissuta nella libertà e per amore. La libertà e l'amore sono infatti le condizioni della fede cristiana. Non sono più un caso o una necessità»[4]. Secondo: la sequela di Gesù esige un profondo ri-orientamento. La chiamata di Pietro e Andrea e la chiamata di Giacomo e Giovanni sono costruite secondo la medesima struttura e sostanzialmente secondo lo stesso vocabolario. C’è però una differenza non trascurabile: nel primo racconto si dice che lasciarono “le reti” e nel secondo che lasciarono “la barca e il padre”. C’è dunque un crescendo: dal mestiere alla famiglia. Il mestiere rappresenta la sicurezza e l’identità sociale. Il padre rappresenta le proprie radici. Tuttavia, questa assolutezza di riferimento a Cristo, prima che una serie di cose da fare, appare come l'orizzonte in cui vivere la nostra vita. Questa distinzione mi pare importante; diversamente vorrebbe dire che la sua chiamata obbligherebbe tutti a ritirarsi dal mondo, esentarsi dal lavoro e dalla famiglia per diventare tutti preti, monaci o suore. La domanda valida per tutti, laici compresi, è questa: «mentre sto vivendo la mia vita lavorativa e familiare, Gesù è l'orizzonte della mia vita quotidiana a cui continuo a fare riferimento affinché condizioni la mia mentalità e influisca sulle mie scelte?». Già basterebbe quanto indica Enzo Bianchi nella citata intervista: «…il cristianesimo ha stabilito tre rotture: fra il sangue e la famiglia, fra la terra e la patria, fra il tempio e la religione. Queste tre rotture impediscono ai cristiani di essere fondamentalisti, nazionalisti e uniformi». Terzo: la sequela è un cammino. A partire dall’appello di Gesù, essa si esprime con due movimenti (lasciare e seguire) che indicano uno spostamento del baricentro della vita. L’appello di Gesù non porta il discepolo in un luogo, ma lo pone in cammino. «La narrazione è strutturata in forma parallela e presenta due coppie di fratelli. Proprio tale ripetizione insegna il “ripetersi” dello stesso evento nella storia dell’uomo: Gesù non ha chiamato una volta sola sul lago di Galilea, è più corretto dire che lì ha cominciato a chiamare e il suo invito da allora continua ad essere ripetuto in ogni tempo e luogo…per una singolare e personale relazione a Cristo»[5]. Quarto: la sequela è missione. Due sono le coordinate del discepolo: la comunione con Cristo (“seguitemi”) e la corsa verso il mondo (“vi farò pescatori di uomini”). La seconda nasce dalla prima. Gesù non colloca i suoi discepoli in uno spazio separato dagli altri, ma li incammina sulle strade degli uomini. Più avanti si comprenderà che la via del discepolo è la croce.
[1]
E. Balducci, Il mandorlo e il fuoco, Borla |