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    Intervista 
    a DON AUGUSTO FONTANA per TESI DI LAUREA “Parole concave per accogliere rinnovati orizzonti di 
    senso”
 Sostenuta da CONTARDI MARIALUISA
 presso la Facoltà di scienze 
    della formazione all’Università Cattolica di Piacenza.
 Anno accademico 
    2005-2006
  1.     
    Come è nata in Lei la 
    volontà di operare in carcere? Quando ha iniziato questo cammino di 
    educazione  ai detenuti?Mi hanno sempre impressionato le 
    contorsioniste cinesi del circo: corpi disarticolati da fare invidia alle 
    mie articolazioni legnose. E il pensiero va alla ginnastica preventiva 
    iniziata fin dagli anni della loro infanzia. Lì sta il segreto. Certi 
    movimenti sciolti nascono da lontano, da piccoli e progressivi preliminari 
    di adattamento. Così come certe scelte umane significative: difficile che 
    nascano all’improvviso. Hanno un background di destrutturazione e 
    ricostruzione culturale senza il quale non si può neppure sognare di 
    giungere a pensare e operare alcune scelte di vita. La cultura (o se vuoi la 
    spiritualità) del sociale sono sorte in me partecipando lentamente ai 
    comitati di gestione di quartiere, agli scioperi operai della mia gente, al 
    volontariato sulle ambulanze, al volontariato tra gli indigeni dell’Ecuador 
    e i contadini sem terra del Brasile, alla fondazione del locale 
    Tribunale per i diritti del malato, alla amministrazione di Case protette 
    per anziani, vivendo 26 anni come preteoperaio. Dopo tanti anni, la mente, 
    il cuore e le mani si rendono disponibili a disarticolarsi verso ogni 
    direzione dell’umanità dolente, quella che Gesù ci indica come uno dei 
    sacramenti visibili della sua presenza: «Ho avuto fame e mi avete dato da 
    mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete 
    ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e 
    siete venuti a trovarmi» (Matteo 25). Così, quando una mattina del 2000, 
    appena tornato dal Brasile, incontrai un amico che stava cercando un prete 
    per sostituire un cappellano in carcere, impossibilitato per motivi di 
    salute, non potei che rispondere «Eccomi».
 
     2.     
    In quali reparti del 
    carcere svolge il suo lavoro? E concretamente cosa fa?La Legge 354 del 1975 all’art. 78 prevede 
    le figure di Assistente Volontario, «persone idonee a frequentare gli 
    istituti penitenziari allo scopo di partecipare all'opera rivolta al 
    sostegno morale dei detenuti e al futuro reinserimento nella vita sociale. 
    Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e 
    ricreative dello istituto sotto la guida del direttore, il quale ne coordina 
    l'azione con quella di tutto il personale addetto al trattamento sociale per 
    l'affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l'assistenza ai 
    dimessi e alle loro famiglie». Io sono Assistente volontario assegnato 
    ad un Reparto di detenuti “protetti” della Casa Circondariale (in attesa di 
    giudizio, appellanti o con pene definitive inferiori ai 5 anni) e ad un 
    reparto sanitario della Casa Penale (detenuti definitivi con condanne oltre 
    i 5 anni). I detenuti “protetti” sono persone che avendo commesso reati di 
    pedofilia o violenza carnale devono essere tenuti separati, per loro 
    sicurezza, da altri detenuti comuni; anche nel crimine c’è una graduatoria 
    del disonore! I detenuti gravemente infermi o tetraparaplegici vengono 
    trasferiti al carcere di Parma in quanto specificamente strutturato e 
    finalizzato a erogare assistenza sanitaria  e riabilitativa soprattutto nel 
    Centro Diagnostico Terapeutico e nella sezione Paraplegici. Concretamente 
    svolgo attività per 6 ore continuative al sabato, celebrando la Messa nei 
    due Reparti e utilizzando il tempo restante per colloqui richiesti dai 
    detenuti di tutto il carcere, visitando le persone detenute presso le loro 
    celle nei Reparti assegnatimi e incontrando gli educatori o il personale del 
    trattamento sociale per un utile scambio di valutazione sui percorsi singoli 
    o progettuali di socializzazione.
 
     3.     
    Quali le difficoltà che ha 
    trovato ad inserirsi in un contesto simile? 
    Le difficoltà si iscrivono innanzitutto 
    nella ardua conciliazione delle due anime del sistema penitenziario italiano 
    di cui mi sia permesso citarne le colonne portanti così come emergono dal 
    DPR n. 230 del 2000:
 Art. 1. Il trattamento 
    degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste 
    nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, 
    culturali e professionali.  Il trattamento rieducativo dei condannati e 
    degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di 
    modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle 
    relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva 
    partecipazione sociale.
 Art. 2. 
    L'ordine e la disciplina negli istituti penitenziari garantiscono la 
    sicurezza che costituisce la condizione per la realizzazione delle finalità 
    del trattamento dei detenuti e degli internati.
 La difficoltà si incunea, come ho detto, 
    nell’ardua conciliazione tra le “ragioni della custodia- sicurezza” (tra 
    l’altro nel Carcere di Parma esiste una Sezione separata per detenuti 
    sottoposti a regime di massima sicurezza detto “41 bis”) e le ragioni del 
    “trattamento rieducativo”; obiettivi che non confliggono per loro natura e 
    nelle intenzioni del legislatore, ma che nei fatti entrano spesso in rotta 
    di collisione; non sono pochi i problemi per chi agisce soprattutto 
    nell’ambito del trattamento rieducativo, ma anche tra quegli operatori della 
    sicurezza e custodia che sono più aperti al «processo di modificazione 
    delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni 
    familiari e sociali». La carenza di organico del personale di custodia e 
    di trattamento costituisce la «madre di tutte le difficoltà» in quanto 
    innesca processi di limitazione operativa nella gestione prevalentemente 
    organizzata attorno alla sicurezza e alla burocratizzazione, senza parlare 
    dei processi di burn out del personale. Si tenga presente anche, 
    realisticamente, che le persone detenute (di cui il 60% stranieri)  hanno 
    profili personologici molto complessi e critici, provenendo da vissuti 
    personali e sociali difficili, infanzie violate e adolescenze da strada; 
    persone portatrici di aspetti caratteriali e comportamentali che non 
    favoriscono certo la creazione di un clima di fiducia, di convivenza serena 
    e di felice esito.
 
     4.     
    Quali le differenze fra 
    operare educativamente all’interno di una comunità ecclesiale rispetto ad 
    una struttura limitante come il carcere? 
    Il cuore e la biografia personale umana 
    costituiscono il primo ostacolo universale, presente ovunque e in tutti noi: 
    ogni proposta che “accarezza contropelo” il mantello del lupo, va incontro 
    al rischio preventivo del fallimento. Ogni educatore, predicatore, 
    catechista o profeta sa quanto scarto esista tra le proposte della coscienza 
    o della Parola e il lungo iter di convincimento dell’io. Quindi da tale 
    punto di vista posso dire che la fatica è pari in tutti gli ambienti. Chi 
    frequenta la comunità ecclesiale territoriale o parrocchiale si trova 
    normalmente libero da gravi pulsioni criminogene o da gravi reati contro la 
    legge e ciò costituirebbe una facilitata base di partenza per traghettarsi a 
    nuove spiagge di maturità crescente; ma ciò spesso non accade. Noi, 
    cristiani o cittadini medi e spesso mediocri, ci si fossilizza su un’etica 
    minimalista (non fare il grande male), ci si autoassolve su comportamenti 
    antievangelici e anticollettivi (evadere il fisco, perseguire ogni sorta di 
    furbizia sociale, inquinare l’ambiente, alzare i prezzi del commercio oltre 
    ogni decenza, tenere appartamenti sfitti, pagare in nero al limite dello 
    sfruttamento, essere opportunisti e carrieristi ad oltranza ecc) eppure di 
    lì non ci si schioda, nonostante anni di letture bibliche, catechesi e 
    celebrazioni. Insomma i conati della Parola restano lungamente in standby ad 
    attendere una qualche improvvisa e improbabile incrinatura nel sistema 
    ossificato della propria morale e religiosità consolidata. Non ci si 
    meravigli, dunque, della diffidenza e resistenza espressa da altri contesti 
    umani meno attrezzati dal punto di vista della formazione religiosa, morale 
    e di coscienza civile. La permanenza in carcere per un certo periodo di vita 
    permetterebbe a molti detenuti di trovare spazi di tempo di ascolto, di 
    lettura, di revisione critica, di scandaglio del proprio animo; tempo che 
    spesso la vita esterna non concede. Uno dei nostri obiettivi è costituito 
    dal convincere le persone detenute a trasfigurare in opportunità positiva la 
    maledizione della detenzione; ogni tanto propongo provocatoriamente di 
    trasformare la propria cella in “cella monastica”; così incoraggiamo ogni 
    attività di lettura, alfabetizzazione, catechesi biblica, preghiera. Quando 
    un uomo ha raggiunto il fondo del proprio degrado e prende coscienza della 
    propria povertà spirituale o esistenziale, può avere una chance in più nei 
    confronti di colui che, invece, si è creato un’immobile coscienza di 
    giustizia davanti a Dio e agli uomini e si rende pertanto impermeabile ad 
    ogni tentativo di “aggressione” della profezia della Parola.
 
     5.     
    La scorsa volta mi ha detto 
    che “ la parola ha potenza se c’è interazione” ma a che tipo di interazione 
    si riferisce?Se un uomo fosse un’ostrica e gli volessi 
    parlare, la prima cosa che dovrei fare sarebbe solleticargli i gangli di 
    apertura delle valve; e se fosse un riccio aggomitolato in difesa entro la 
    propria barriera spinosa dovrei porgergli odori e profumi che lo convincano 
    a distendersi e tornare aperto alla relazione. Le leggi della comunicazione 
    hanno un principio primo inaggirabile: l’emittente e il ricevente devono 
    essere sulla stessa lunghezza d’onda. Nella catechesi abbiamo fatto un 
    progresso; un tempo ci si preoccupava di insegnare bene i contenuti senza 
    badare tanto alla persona, poi si è passati a concepire la proposta di fede 
    come una risposta alle domande dell'uomo. Ma quali sono le domande dell'uomo 
    e, nel nostro caso, dell’uomo detenuto? È necessario comprenderle, 
    altrimenti finiamo per dare delle risposte a domande che non esistono. Il 
    nostro contesto culturale censura le domande o ubriaca al punto tale da 
    impedire che le domande profonde affiorino. Anche in carcere le prime 
    domande emergenti sono quelle che rispondono ai bisogni primari (sussidi, 
    sigarette, abiti, contatto con avvocati, familiari, magistrati, educatori…). 
    E’ giusto che ci poniamo a livello di quelle attese, che esprimono bisogni 
    di cura e tenerezza; e da lì partire per far affiorare le domande 
    “ulteriori”, quelle che giacciono inevase nella profondità dell’animo e che, 
    quando funziona la relazione, effettivamente affiorano. Nel contesto di 
    debolezza di pensiero, di riduzione della fede a una occasione 
    opportunistica per ottenere qualche beneficio, l'evangelizzazione si trova 
    davanti una strada preziosa: aiutare le persone che cercano senso alla loro 
    vita, facendosi voce critica nei confronti della struttura esistenziale di 
    ciascuno, facendosi interrogativo sulla vita. Far affiorare le domande prima 
    di dare risposte, perché dalle domande nasca un cammino di ricerca. Ogni 
    parola ha bisogno di un preventivo processo di inculturazione nella 
    situazione sociale, simbolica, esistenziale del destinatario. Non è semplice 
    adattamento esterno che, per rendere più attraente il messaggio, si limita a 
    coprirlo in modo decorativo con una vernice superficiale.  Si tratta, 
    invece, della penetrazione del Vangelo negli strati più nascosti delle 
    persone, raggiungendoli in modo vitale, in profondità e fino alle radici  
    delle loro “culture”. Tale inculturazione, vista nell’ambito carcerario, 
    inizia ristrutturando “gli sguardi”. Chi varca la soglia del carcere per la 
    prima volta viene guardato comunque con sospetto: benché ancora presunto 
    innocente fino alla definitiva sentenza, è comunque al centro di 
    un’attenzione giudiziaria. C’è una vergogna famigliare da sostenere, un 
    pudore violato dall’articolo sui giornali, dal gossip di paese, dal 
    licenziamento da parte del datore di lavoro, dalla distanza emotiva degli 
    amici. Nasce l’autocoscienza - se colpevole - dell’impurità contratta e - se 
    innocente - la ribellione per il crollo dell’immagine di sé. Quando entra in 
    carcere un recidivo o un condannato definitivo, lo sguardo di tutti consegna 
    al soggetto il messaggio: «Sei un criminale; ben ti sta!». Il primo passo 
    della inculturazione della parola deve partire di qui: «Io ti guardo con uno 
    sguardo diverso; non mi interessa ciò che sei stato ma ciò che puoi essere o 
    sarai; non dunque la tua impurità ma la tua verginità; tu mi sei caro». La 
    parola se funzionerà, accadrà solo se funziona questo nuovo e diverso 
    guardarci negli occhi. La fecondità del rapporto bocca-orecchio è 
    condizionata dal rapporto occhio-occhio.
 
     6.     
    L’interazione può divenire 
    relazione? Oppure si limita ad essere “conversazionalismo superficiale”?Ogni relazione è connotata dal contesto 
    in cui accade. Il detenuto, innanzitutto, si trova in un contesto 
    relazionale di totale consegna della propria vita nelle mani altrui: non si 
    possiede più, è deprivato di tutto ciò che costituisce normalmente la vita e 
    le relazioni. Nascono due atteggiamenti: o stare al gioco o ribellarsi. La 
    maggioranza sta al gioco. La Legge 354/75  e la Legge 663/1986 (conosciuta 
    come “legge Gozzini”) hanno introdotto un meccanismo premiale che permette 
    al detenuto che si comporta bene, non riceve rapporti disciplinari, si rende 
    accattivante agli operatori che lo circondano, di ottenere sconti e 
    benefici: l'affidamento in prova al servizio sociale; la semilibertà; la 
    liberazione anticipata (90 giorni di riduzione pena per ogni anno espiato); 
    i permessi premio fino a 45 giorni in un anno; il lavoro esterno. E’ facile 
    dunque, e succede per la maggioranza, che esista una adesione - talora non 
    convinta ma esteriormente ineccepibile - alle regole della disciplina, della 
    convivenza e del trattamento. E ciò a scapito della sincerità verbale e 
    comportamentale. Il fenomeno della simulazione, esibizione  e della 
    discrasia tra pensiero e linguaggio, tra reale progetto di vita e promesse, 
    sono frequenti. Forse anche umanamente e psicologicamente comprensibili. 
    Dunque i rapporti sono falsati all’origine, anche perché un vero rapporto 
    nasce in condizioni e circostanze paritarie. E’ dunque difficile, per 
    chiunque si accosti ad un detenuto, costruire un rapporto profondo e vero. 
    Normalmente “non si parla della corda a casa dell’impiccato”: nei nostri 
    colloqui le circostanze dei fatti e dei reati giungono tardive, incomplete, 
    freudianamente censurate o rimosse. Il successivo confronto tra i fascicoli 
    processuali e le storie di vita narrate fanno nascere una cruciale e 
    dolorosa domanda: «Chi ha ragione? L’inquirente, il giudice o l’imputato?». 
    Questa base “liquida” della relazione crea un’ulteriore circostanza ambigua 
    o equivoca. Occorre dunque molto tempo perché l’iniziale “conversazionalismo 
    superficiale” possa raggiungere lo stato di due anime trasparenti e gratuite 
    che hanno abbandonato l’uno la voglia di “conquistare una vita perduta” e 
    l’altro la voglia di “conquistarsi favori”. Tuttavia Gesù aveva paragonato 
    il Regno di Dio ad un seminatore che getta seme abbondantemente su ogni 
    angolo di terreno, sprecandolo senza preventive cernite o pregiudizi, 
    esponendosi al rischio del fallimento per presenza di rovi, sassi e sole 
    bruciante, ma anche aprendosi all’insperato esito di fruttificazioni «al 
    trenta, al sessanta e al cento per cento». Alcune verifiche accadono quando 
    un detenuto esce per fine pena e mantiene con noi contatti telefonici o 
    epistolari garantendoci che “tutto va bene” ed esprimendo quella amicale 
    memoria grata di momenti intensi. Una frase ritorna frequente: «Mi mancano 
    le nostre Messe». La Parola, dunque, deve essere potente nella sua generosa 
    inseminazione pur restando debole nelle sue rischiose stagioni.
 
     7.     
    “La parola si fa 
    atteggiamento”. Ma attraverso quali mezzi si può vedere un cambiamento nella 
    personalità del detenuto?  Intendo dire, attraverso quali mezzi la parola si 
    fa “leva” per elevare il detenuto dal suo status?L’osservazione personologica effettuata 
    da psicologi, psichiatri e criminologi possiede gli strumenti adatti (anche 
    se non infallibili) per verificare il livello di coscienza che la persona 
    possiede circa la propria devianza sociale, il proprio reato, il danno alla 
    vittima. Si tratta di una diagnosi personologica a cui dovrebbe far seguito 
    un programma trattamentale che preveda un supporto psicologico per chi 
    affonda  le  radici della devianza nel male oscuro della psiche (pedofilia, 
    depressione, autolesionismo, dipendenze compulsive, aggressività patologiche 
    ecc) e un supporto sociale per chi affonda le radici nella terra bruciata 
    della carenza di protezioni economiche e relazionali (homeless, disoccupati 
    totali in età avanzata, senza-famiglia, stranieri clandestini ecc). La 
    comunità cristiana è presente, all’interno, prevalentemente con l’offerta 
    religiosa in tutte le sue valenze catechistiche, celebrative e 
    assistenziali; ma tutti abbiamo l’impressione di una inadeguatezza di 
    risposte ai bisogni. Ho già detto che il livello verbale è soggetto ai 
    limiti dell’ambiguità ed equivocità provenienti dall’animo umano ed 
    accentuate dalle particolari circostanze dello stato di detenzione. La 
    persona detenuta può essere messa in grado di misurarsi con la voglia di 
    cambiare e di dimostrarlo, soprattutto accedendo alle misure alternative al 
    carcere o premiali (arresti e detenzione domiciliare, affido sociale, 
    permessi premio, semilibertà ecc). La parola di operatori e volontari e 
    quella dei detenuti si “invera” creando o offrendo occasioni, ovviamente 
    protette e accudite,  di effettivo recupero della capacità di convivenza, 
    collaborazione, amore, rispetto, legalità, assunzione di responsabilità. A 
    Parma esistono cooperative sociali laiche, che offrono lavoro sia sotto 
    forma di “borsa lavoro” che per lavori in regime di semilibertà; sono sorte 
    associazioni cattoliche (S.Cristoforo, S.Giuseppe) che offrono accoglienza e 
    ospitalità per favorire la fruizione dei benefici di legge e di regime 
    alternativo; Caritas-carcere e l’Associazione “Per ricominciare” gestiscono 
    appartamenti e personale volontario per l’accoglienza sia dei detenuti in 
    permesso premio che dei familiari in visita e provenienti da lunghe 
    distanze. Sono “eventi” che danno «forza» alla parola perché chi vuole 
    misurarsi ne abbia l’opportunità e perché la parola della società 
    territoriale e della comunità cristiana locale diventi credibile e 
    affidabile.
 
    8.     
    Chi lavora con i detenuti 
    deve avere una cultura diversa da quella del pregiudizio.Ma il luogo 
    comune è l’esatto opposto. “Chi sbaglia paga”. Come affrontare nella società 
    un tema difficile come la rieducazione in carcere?
 Mi sia concesso riferirmi a un documento 
    della Caritas Italiana su giustizia e carcere (Liberare la pena, ed. 
    EDB 2004). Fin dall’inizio il documento testimonia una nuova prospettiva 
    della pastorale carceraria  che dovrebbe diventare anche nuova coscienza 
    ecclesiale nei confronti della devianza e dei suoi riflessi punitivi. 
    L’introduzione titola significativamente: "Dal visitare al liberare: il 
    segno alternativo". Dopo aver elencato i multiformi servizi che le 
    comunità cristiane hanno sviluppato in questi anni, il documento evidenzia 
    che da tale impegno "si evince una maggiore capacità di visitare i 
    detenuti più che uno sforzo di liberarli dalla necessità del carcere». E 
    chiede, di conseguenza, che l’impegno pedagogico e culturale della comunità 
    non si appiattisca sul dibattito odierno che parla sempre più di certezza 
    della pena, di sicurezza e di costruzioni di nuove carceri. L’ottica è nuova 
    a partire dalla domanda: "Davvero al male si può rispondere solo con il 
    male?". È il completo ribaltamento del concetto della “giustizia 
    retributiva”: "Resta diffusa una radicata sensazione che il carcere sia 
    lo strumento privilegiato per fare giustizia: riusciamo a misurare la 
    gravità dell’azione commessa prevalentemente attraverso gli anni di carcere 
    inflitti in sentenza ". Certo, il documento afferma che "non sarebbe 
    giusto, specie per i credenti, che una società non dichiarasse il male 
    compiuto e non ne riconoscesse, dove riesce, le cause e le 
    responsabilità…Bisogna però chiedersi se attraverso la privazione della 
    libertà si possa educare o se l’educazione non sia innanzi tutto 
    sprigionamento e dono di totale libertà… Perché la libertà abbia questo 
    potere di educare, va intesa come modo per stare in rapporto con gli altri e 
    non come via di separazione da essi; una libertà intesa come sistema di 
    legami (e non come deprivazione da essi) è una libertà che dona diritti e 
    richiama doveri. Contrariamente, la detenzione deresponsabilizza i soggetti 
    sottoponendoli a una deprivazione della libertà e dei suoi legami". Il 
    documento insiste su questa nuova visione: "Un altro problema che ci 
    dobbiamo porre è se subendo un trattamento disumano (come spesso capita in 
    carcere) si possa costruire una motivazione per appartenere in modo 
    costruttivo allo stesso sistema che sta infliggendo quel trattamento o se 
    non siano altre le vie per costruire opportunità di partecipazione al bene 
    comune da parte di chi è stato autore di reato." A supporto di 
    quest’affermazione viene citata l’affermazione di Giovanni Paolo II: "I 
    dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva 
    in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. 
    Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che 
    tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento…". E il documento lancia 
    la prospettiva di una “giustizia riparativa” ricordando che in diversi paesi 
    sono in atto forme di pena che non usano il carcere come primo strumento 
    soprattutto per i reati minori e con soggetti non socialmente pericolosi. Si 
    chiamano pene alternative alle detenzione e prevedono la sanzione 
    amministrativa realmente riscossa, l’obbligo di lavoro socialmente utile, la 
    “messa in prova”, l’introduzione della “mediazione penale” che è un 
    procedimento di risoluzione dei conflitti che coinvolge un terzo neutrale e 
    dove sia la vittima sia l’agente del reato hanno la possibilità di 
    partecipare attivamente, e a titolo volontario, alla risoluzione dei 
    problemi nati dal reato e all’elaborazione di un’attività riparativa, 
    materiale o simbolica.
 Ho parlato della legge Gozzini, quella legge che fa tanto discutere quando 
    un detenuto in regime alternativo reitera un reato o scappa: a fronte dell’ 
    1% di violazioni, dal 1975 ad oggi oltre mezzo milione (una media di 20 mila 
    persone l'anno) di detenuti si sono reinseriti tramite questa gradualità 
    della pena nella società. Nell’anno 2004, su oltre 50.000 persone che hanno 
    usufruito della legge Gozzini, "solo" 104 (cioè lo 0,21%) hanno commesso un 
    nuovo reato (in molti casi assolutamente non grave). Il che non significa 
    non porsi il problema di fare tutto quanto possibile per evitare anche quei 
    pochi casi. La soluzione non è certo quella di modificare la legge come 
    chiedono in molti, che è tutt’altro che permissiva (circa il 70 % delle 
    domande di benefici viene respinta dai magistrati di sorveglianza), ma di 
    fornire gli strumenti necessari e organici sufficienti agli operatori 
    penitenziari, ai magistrati di Sorveglianza, agli addetti al reinserimento. 
    E, invece, in presenza di una popolazione carceraria che ha superato i 
    58.000 detenuti, vi sono meno di 1.000 educatori (A Parma per 630 detenuti 
    sono previsti in organico 8 educatori; di fatto ne sono assegnati 1 a tempo 
    indeterminato e 2 a tempo determinato), per non parlare degli psicologi e 
    degli assistenti sociali. Eppure il loro compito è delicatissimo: verificare 
    la non pericolosità sociale del singolo detenuto, l’effettivo percorso di 
    recupero, i progressi compiuti nel corso del trattamento, il graduale 
    reinserimento sociale, la partecipazione all’opera di rieducazione e 
    stabilire se il suo "ravvedimento" può essere considerato "sicuro".
 È del 1974 una pronuncia della Corte Costituzionale che ha imposto al 
    legislatore una normativa che riconoscesse "il diritto per il condannato 
    alla verifica se la pena già espiata abbia o meno assolto positivamente il 
    suo fine rieducativo… In caso positivo - hanno affermato i Giudici 
    Costituzionali - l’ulteriore espiazione della pena non deve aver luogo".
 La Parola irrompe nel cuore delle singole persone con la debolezza e la 
    forza del paradosso, della critica profetica, della sua capacità di 
    convincere, di stupire; ma deve essere rivolta anche alle strutture sociali 
    che, esse pure, devono convertirsi. La Parola evangelizzante è tale quando, 
    simultaneamente, converte i cuori e la politica, chi la pronuncia e chi la 
    ascolta, la persona singola nella sua unicità e responsabilità, ma anche la 
    comunità ecclesiale o sociale che sia.
 
    9.     
    Lei mi ha detto:” Bisogna 
    lavorare sui punti molli della persona”.  Cosa intende? Si può parlare di 
    una pedagogia della tenerezza?«Che le pareti delle galere possano 
    animarsi di figure e colori, rinunciando al culto della bruttezza che vi 
    vige per ufficio, è un bel pensiero, e qua e là si è tradotto nei fatti. Non 
    so se la bellezza salverà il mondo: so per certo che la bruttezza lo 
    perderà. Nè si può immaginare che la bellezza riscatti la galera: certo la 
    bruttezza la danna. La bellezza e la musica. La galera è fragore di ferri 
    battuti e stridore di denti. La musica entra con ali d'angeli».(Adriano 
    Sofri - Panorama 01/07/04). Altrettanto vorrei dire della tenerezza: non so 
    se la tenerezza riscatterà la galera, so per certo che la durezza 
    disciplinare la congelerà nella sua infeconda dannazione. E così vorrei dire 
    della poesia, della musica, del teatro. E, perché no?, delle tecniche yoga. 
    La Dott.ssa Kiran Bedi, direttrice del carcere di Tihar a Nuova Delhi ha 
    pubblicato, nel libro “LA COSCIENZA DI SÉ. Le carceri trasformate. Il 
    crollo della recidiva” (Ed Giuffrè, Milano, 2001), una dettagliata 
    documentazione del metodo che ha preso il suo nome; una sua personale 
    rivoluzione iniziata negli anni ’90 applicando la tecnica di meditazione 
    olistica “vipassiana”, ora diffusa negli Stati Uniti d’America, Nuova 
    Zelanda, Regno Unito, Australia.
 I noti problemi di sicurezza e di organizzazione del lavoro degli agenti non 
    coltivano progettualità indirizzate a esposizioni interne d’arte, a 
    esperimenti di espressività creativa, a forum di ascolto musicale e 
    audiovisivo. Eventi, questi, che accadono saltuariamente e per pochi. 
    Restano prevalenti le perquisizioni in cella, i controlli ambientali e 
    personali, le celle di isolamento, le commissioni e i rapporti disciplinari, 
    le risse, l’autolesionismo.
 Ma che cos'è la tenerezza?  E’ uno stile di vita  e di rapporto fatto di 
    dolcezza, benevolenza, delicatezza, attenzione, simpatia, comprensione, 
    capacità di commuoversi. La tenerezza non va confusa con le sue goffe e 
    mollicce sdolcinature.  Uno dei modi più rozzi per difendersi dalla sfida 
    della tenerezza è quello di liquidarla come «cosa da donne» o come principio 
    di esenzione dalla responsabilità. Non intendo accantonare “il 
    principio-responsabilità” in favore della tenerezza; tuttavia, poiché il 
    versante della responsabilità è già ampiamente rappresentato in una 
    istituzione  totalizzante come il carcere (o in una visione tradizionale del 
    cattolicesimo) e poiché il “principio- tenerezza”resta un pensiero di 
    minoranza, è bene enfatizzarne l’assenza, la necessità, il ruolo. Una certa 
    persistente impenetrabilità tra tenerezza e giustizia, è uno dei sintomi 
    della frattura persistente nella nostra cultura e prassi sociale.
 Noi facciamo la nostra parte evangelizzando un Dio del perdono e della 
    resurrezione dagli inferi anziché un Dio inquirente e giudice. Sperando così 
    anche di andare a toccare quelle parti molli del temperamento e degli 
    affetti, della fiducia in sé e negli altri, della speranza e resistenza 
    contro ogni delusione. La tenerezza è connotazione femminile e maschile; sì, 
    anche maschile se le figure maschili riescono a far affiorare il volto anche 
    femminile della loro dimensione interiore. La carenza di figure femminili in 
    un ambiente prevalentemente maschile, non aiuta. I colloqui con i familiari 
    (ma gli stranieri hanno familiari a disposizione?) sono fondamentali e 
    previsti per legge come diritto e progetto. Il divieto di poter avere 
    normali rapporti sessuali con le proprie compagne fa scivolare le persone 
    verso una silente e diffusa omosessualità. In carcere manca tenerezza in 
    tutti i versanti e, quando c’è, la sua parodia è devastante. Manca una vera 
    “terapia della tenerezza” che si rivolga al bambino che c’è sempre in noi. 
    Di quando in quando regalo (a chi sa leggere!) “Il Piccolo Principe” di 
    Saint-Exupery, “L’uomo che piantava gli alberi” di J.Giono, “Il Gabbiano 
    Jonathan Livingston” di R. Bach.
    Oltre, ovviamente, al 
    Vangelo, un racconto di vita innocente e straordinaria. Saint-Exupery, in un 
    suo scritto (Lettera ad un ostaggio) osserva: «Poiché il deserto non 
    offre nessuna ricchezza tangibile, poiché non c’è nulla da vedere né da 
    sentire nel deserto, si è costretti a riconoscere che l’uomo è animato 
    soprattutto da sollecitazioni invisibili. L’uomo è governato dallo spirito. 
    Io valgo, nel deserto, quanto valgono le mie divinità».
 Nel deserto non possiamo sfuggire a noi stessi. Nella crisi possiamo 
    scoprire noi stessi nel nostro limite, ma anche nella nostra capacità di 
    trasformare la vita in un cantiere permanente. Le crisi si rivelano come 
    momenti in cui attuare le riparazioni e i restauri necessari. E’ in quei 
    momenti che la crosta dell’adulto forte o criminale si può sgretolare e far 
    apparire dentro il bambino, il principe che è in lui. Nelle persone detenute 
    che accettano di lasciarsi andare ho scoperto a volte il «bambino interiore» 
    timoroso e regale. Quello non ancora guastato dalla follia criminogena o 
    dalle uniformi. Il «bambino interiore» è un po’ anarchico, ma anche curioso 
    e resistente ad ogni stupidità, malattia virale infettante. «Se non 
    diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli», si legge nel 
    Nuovo Testamento, e ciò vuol dire tornare alla sincerità e alla profondità 
    dell’animo infantile e alla filialità evangelica.
  10. 
    Un bel ricordo del 
    carcere………Quando ho potuto invitare a 
    pranzo a casa mia un detenuto e i suoi familiari. Ogni volta che un 
    detenuto, uscito per fine pena, mi gratifica della sua amicizia e delle 
    buone notizie della sua famiglia, del suo lavoro e della sua recuperata 
    onestà sociale. Fortunatamente non sono pochi.
 
     11. 
    Un cattivo ricordo del 
    carcere……Non uno, ma più. Quando giunge 
    notizia che un detenuto si è impiccato (oltre 35 in Italia nei primo 10 mesi 
    del 2005; a Parma: 5 in 5 anni). Quando tre volontari splendidi sono 
    “scoppiati” e hanno abbandonato, forse anche per sfinimento contro il muro 
    di gomma dell’Istituzione. Quando ho rivisto in carcere volti di uomini che 
    avrei volentieri incontrato in piazza o al supermercato dopo una libertà 
    acquistata e poi riperduta a caro prezzo. Quando è corsa voce che un 
    detenuto, su cui avevo scommesso, è scappato o si è messo nei guai durante 
    un permesso premio. Quando il carcere mi telefona che deve essere scarcerato 
    entro due ore un detenuto in carrozzina, malato, straniero, e non so dove 
    accoglierlo né tanto meno quale futuro garantirgli. Quando saluto un “nuovo 
    giunto” e mi appare il dolente fantasma di un bimbo violato, di una donna 
    stuprata, di una vita troncata.
 
     12. 
    Una questione spinosa che 
    riguarda il carcere è la difficoltà del lavoro d’equipe. Quanto è ostacolato 
    nel Suo lavoro?  Quanto è “tagliato fuori”?  Come reagisce a tutto ciò?Il carcere, ultimamente e finalmente,  ha 
    accelerato sul processo di lavoro di rete con il volontariato. Ha costituito 
    Convenzioni con l’Assessorato competente del Comune; anche se le 
    dichiarazioni di intenti faticano poi a trovare concretezza. Sono segnali 
    forti e positivi di integrazione tra gli ambiti propri degli operatori 
    professionali interni e quelli degli operatori provenienti o operanti nel 
    territorio. La Diocesi ha costituito la Consulta pastorale del carcere, 
    mediante la quale il volontariato ecclesiale ha cercato linee e 
    comportamenti unitari pur nella valorizzazione delle differenze. La Diocesi 
    ha stanziato circa 15.000,00 euro all’anno per le spese del volontariato a 
    favore dei detenuti. I contatti tra alcuni volontari e l’Ufficio educatori 
    sono più frequenti, sereni e collaborativi. Senza negare che le proposte 
    emergenti ed inizialmente accolte, al momento della loro attuazione trovano 
    incomprensibili ostacoli che le neutralizzano sfiancando le persone che 
    avevano concertato con passione. Ogni volontario viene annualmente 
    autorizzato dalla Direzione che in qualsiasi momento può sfiduciare il 
    volontario: posizione, dunque, in permanente precario equilibrio 
    comprensibilmente delicato e sofferto.
 
     13. 
    Il carcere è il luogo della 
    disumanizzazione,  la persona è “cosalizzata” .  Qual è il suo lavoro sui 
    sentimenti dei detenuti?Il primo approccio è «tentare di 
    compatire, cum-patere, con-soffrire». Ha scritto un teologo: «Per 
    Gesù la cosa più grande non è quella di agire a favore nostro; la 
    cosa più grande è patire con noi e per noi».  Il secondo 
    approccio è «cercare di avvolgere in fasce» che è un gesto materno/paterno. 
    E’ il gesto del “prendersi cura” del loro sentimento di aggressività e 
    ribellione, dell’abbracciare gli sfinimenti, dell’accarezzare le solitudini, 
    del dedicarsi ai particolari del loro volto e nome e storia,  del non far 
    mancare il necessario e oltre il necessario. Rappresenta simbolicamente ogni 
    attenzione gratuita che rivolgiamo ai detenuti, a chi soprattutto non ce la 
    fa, ansima, ha perso speranze e fiducia, è fuori circuito. Ma è anche un 
    gesto che descrive Dio: noi stessi siamo stati avvolti, nei momenti di 
    debolezza, dalle mani perdonanti di Cristo. E quante volte siamo stati 
    avvolti dalla sollecitudine premurosa dei fratelli e delle sorelle. 
    «Avvolgere in fasce» è una vera “parabola” efficace e parlante di Dio, con 
    molte affinità e analogie con il nostro servizio pastorale e volontario. Su 
    Gesù, per il quale non c’era posto nella città comune, veglia premurosa la 
    custodia di Maria, la quale, scrive Luca, «diede alla luce il suo figlio 
    primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc 
    2,7). L’angelo offre come “segno” ai pastori proprio quella fasciatura: «Questo 
    per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in 
    una mangiatoia» (Lc 2,12).  Luca è talmente affascinato dal gesto 
    dell’avvolgere in fasce che lo ricorda anche nella prassi curativa del buon 
    samaritano  che si avvicina all’uomo vittima di un’aggressione e «n'ebbe 
    compassione. Gli si fece vicino, gli avvolse in fasce le ferite, 
    versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra la sua cavalcatura, lo portò a 
    una locanda e si prese cura di lui» (Luca 10, 34). Se avesse potuto, il 
    samaritano avrebbe fasciato anche le ferite aperte nella vita sgangherata 
    degli aggressori di quell’uomo, proprio come fa Dio che «Risana i cuori 
    affranti e fascia le loro ferite» (Salmo 146). Luca insiste. 
    Anche il cadavere inerte di Gesù viene avvolto in fasce: «Giuseppe di 
    Arimatea calò il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo 
    e lo depose in una tomba» (Luca 23,53).  In altre parole: le “fasce” 
    delle narrazioni evangeliche sono – certo - pannolini, bende, lenzuola, 
    stracci della vita quotidiana. Ma assumono anche un significato simbolico 
    molto denso e suggestivo. Sono la spia di un messaggio che va oltre 
    l’apparenza esteriore.
  14. 
    Se è vero che noi esistiamo 
    perché esiste “l’Altro” e se è vero che un rapporto educativo si basa su un 
    continuo dare/ ricevere Lei cosa ha ricevuto gratuitamente dai detenuti? 
    Quali modifiche ha portato e continua a portarLe questa sua esperienza di 
    lavoro in carcere?La risposta a questa domanda e la conclusione dell’intervista la lascio al 
    carteggio di un detenuto:
 
    «……..E’ molto duro essere in carcere. 
    Cerco giorno dopo giorno di capire me stesso, di capire il perché di questa 
    situazione. I cambiamenti li sento dentro la mia anima. Ho, come tutti, 
    tanti problemi. Li affronto con serenità. Se posso fare qualcosa bene, 
    altrimenti mi riprendo pensando “Pazienza!”. Prima devo cercare di cambiare 
    me stesso: questa è la mia prima regola: partire da me stesso. Fuori avevo 
    perso la mia personalità, non mi volevo bene, mi autodistruggevo. Dicevo 
    sempre di sì pur di far contenti gli altri, senza rendermi conto di nulla. 
    Ero giù nello spirito. Pian piano le racconterò la causa di tutto questo 
    malessere. Per ora le trascrivo una preghiera che faccio sempre da quando ho 
    frequentato gli alcolisti anonimi: Signore concedimi la serenità di 
    accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che 
    posso e la saggezza di conoscere la differenza.…. 
    ………grazie per aver risposto alla mia 
    lettera. Sono molto felice di aver trovato un fratello e come fratello ti 
    ringrazio. Sai, capirsi con l’anima per me è molto importante. Io non sono 
    riuscito fin da piccolo a parlare apertamente dei miei dubbi. Inizio da 
    quando ero piccolo perché mi sono posto tanti interrogativi: per esempio mi 
    chiedevo come mai papà non veniva mai a scuola. Sono dubbi apparentemente 
    leggeri, ma che pesavano come macigni nella mia vita da bambino. Quando sono 
    arrivato a 12-13 anni ho cercato di avere una conversazione con lui, mio 
    padre, per dirgli quello che stavo passando un brutto momento e che volevo 
    cambiare il mio comportamento. La prima volta che ho preso coraggio e ho 
    chiesto aiuto mi sono sentito dire che io non ero suo figlio e che lui aveva 
    dato solo il cognome. Che amarezza a quell’età. Mi sono sentito solo, solo. 
    E’ stata dura. Ma ora ho capito che solo io sono in grado di cambiare tutto 
    partendo dalla radice. Ho, dal profondo di me stesso, un futuro pieno di 
    luce. Lascio la finestra e la porta aperta perché venga la luce della 
    speranza. 
    ……………..Riprendo la lettera precedente 
    nella quale ti ho parlato del mio passato che non posso cambiare. Posso solo 
    dargli un senso di esperienza di vita e non solo negativa, per il mio 
    futuro. Anzi mi aiuta ad essere un uomo completo. Sai fratello: il carcere 
    per me non è una punizione. Mi fa capire che avevo perso la strada ed ora mi 
    dice: fermati, rifletti, chiedi aiuto e ritroverai la strada giusta. 
    ……………Questa notte mi sono svegliato alle 
    2,30 e mi sono messo a riflettere fino alle 5,00. Più o meno la mia 
    riflessione era sul fatto di fare un elenco di tutte le persone a cui ho 
    fatto del male e come dal profondo di me stesso faccio ammenda verso tutti 
    loro. Io personalmente mi trovo con la coscienza del pentimento. Vorrei 
    dirlo di cuore a tutte loro, ma – data la mia situazione – avvicinarmi a 
    loro potrebbe causare malessere; è solo per questo che mi tengo dentro il 
    mio pentimento. Chiedo davanti a Dio e dico: Perdonatemi tutti. Sai, 
    fratello: è molto rassicurante per l’anima trovare questo sincero 
    pentimento. Mi sento leggero dentro. 
    ….Sabato scorso a Messa è stato tutto 
    molto bello, un po’ diverso dal solito per il modo di sentire la Messa; mi 
    sono sentito particolarmente preso. Posso dire che in tutti i miei anni 
    questo sabato rimarrà per sempre nella mia mente, un dolce ricordo per gli 
    anni avvenire. Potrò raccontare ai miei nipoti, se ne avrò, più o meno così: 
    «Un bellissimo giorno di maggio ho raccolto un piccolo seme
    nella mia anima e nel mio 
    spirito e ho iniziato a coltivarlo. Ciò che sognavo di essere oggi». 
    Grazie fratello. Mi parli della lettera 
    di Paolo ai Romani 8, 28: “Dio fa tendere ogni cosa al bene”. Questo è vero; 
    facendo un’analisi della mia vita ho sempre cercato di essere nel giusto, ma 
    purtroppo i disagi da me sofferti non mi hanno portato a vedere chiaro 
    quello che pian piano mi consumava. Con quella verità scoperta a 13 anni, 
    dopo anni sono riuscito a parlare con mia madre. Nel 1983-84, quando arrivai 
    in Italia, con molta calma e comprensione ho chiesto: «Mamma, chi è mio 
    padre?». Mi rispose che non poteva dirmelo perché neppure lei lo sapeva, era 
    stata ingannata da una persona che aveva lasciato subito dopo la mia 
    nascita. La capii, le diedi un bacio e la consolai. Dopo tutto un figlio non 
    può giudicare un genitore, ma deve solo capirlo e dargli il meglio perché la 
    sua sofferenza si spenga. Così fino ad oggi siamo stati molto affiatati. 
    Caro fratello, mi fa molto bene scriverti questo; per me è la forma di 
    sentirmi più maturo. Devo solo pregare per accettare con più forza il 
    disagio di una vita passata e darle un senso buono per me e per tutti quelli 
    che mi sono vicini. 
    ……….Mi sono svegliato alle 5.00 e ho 
    fatto una preghiera per tutti. Poi mi sono messo a pensare su di me anche 
    alla luce della Parola che avevamo ascoltato sabato(Giovanni 15, 1-13): «Io 
    sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non 
    porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché 
    porti più frutto…». Io sono stato “potato”. Grazie a Dio nostro Signore 
    posso ancora dare frutti, aver trovato la fede, pensare che dentro di me le 
    foglie erano secche e da buttare. C’era qualcosa che mi attendeva: che 
    trovare la fede, che un Signore nostro Dio ci da la fede e la speranza, che 
    posso dare ancora buoni frutti: tutto questo è meraviglioso e riesce a 
    strapparti un timido sorriso che ti fa viaggiare, immaginare un sole che con 
    la sua luce fa crescere i vigneti. E io sono lì, potato, pieno di speranza, 
    pronto a dare nuovi frutti. Nel silenzio penso e dico: «Grazie Signore per 
    tutta la gioia che mi dai».…(narra i particolari e le circostanze che lo 
    hanno portato all’arresto)……………..Mi sento male, fratello, per come possa 
    esistere tanta incomprensione e nel vedere che il mondo ti sta crollando 
    addosso e non sei capace di reagire, di dire “Basta! Basta!” né una sola 
    persona che ti possa sentire a tu per tu.. Adesso, dopo tanta sofferenza, 
    c’è il mio risveglio spirituale dell’anima che mi fa ritornare ad essere 
    l’uomo dei buoni principi. Ho sempre lottato per esserlo nel mio piccolo. 
    Ho  mantenuto, ma poi ho perso la strada della fede. Ho sopportato ma il mio 
    buon cuore affiora ancora in questo momento. Dio nostro Signore mi ha messo 
    accanto un fratello che mi fa ritrovare e accrescere la mia stabilità in 
    tutti i sensi. Fratello, se ho commesso un errore nella mia vita mi sento 
    pentito. Dio saprà perdonarmi. Quest’uomo umilmente chiede solo di non 
    essere più castigato. Dio mi da conforto. Sento nel profondo del mio animo 
    che è stata tutta una misera povertà dell’anima. Ora sono disposto 
    spiritualmente a non lasciarla più impoverire. Il Signore sia con noi. 
    ……Grazie Signore per questa esistenza 
    nuova. Grazie Signore perché giorno dopo giorno mi fai non aver fretta. 
    Grazie Signore per farmi accettare tutti i problemi anche se non è facile.
     
    Sai fratello quanto bene, bellezza, 
    amore, capacità di capire e ascoltare c’è dentro di noi. Io purtroppo tutto 
    questo l’ho affogato nell’alcool. Ringrazio Dio di averti messo sulla mia 
    strada; è così faticoso, ma ti da la speranza di vivere ogni minimo respiro 
    di vita, il dono di conoscere la vera libertà dello spirito. 
    ………Sai, fratello, sabato scorso pensavo 
    al colloquio che abbiamo avuto e una delle cose che mi è rimasta impressa è 
    quando ti ho detto che per me sei un fratello spirituale, uno psicologo, un 
    educatore, persino un ex alcolista, cioè tutto. E’ meraviglioso avere un 
    fratello come amico. Parlare con te su cosa mi è successo, cosa ho 
    riflettuto, come intendo costruire il futuro è come rincontrare me stesso. 
    Sono dell’idea che come persona bisogna fermarsi sempre a guardare cosa ti 
    succede intorno. Per poi continuare avanti. Solo così riesci a mantenere  
    una strada serena.. Personalmente mi ritengo baciato da Dio perché pur 
    trovandomi in questo momento così difficile e di sofferenza, sono riuscito a 
    portare serenità a calma ai miei familiari. Parlando con mia madre ieri mi 
    ha detto: «Ti trovo cambiato, sereno e la tua voce è tornata con lo stesso 
    tono di prima». Le ho risposto: «Mamma, sapessi quanto malessere mi sono 
    tolto da dentro di me». Poi ho continuato a parlare di altro come se piano 
    piano entrassi in una nuova fase. Tutto viene ampliato in una nuova forma di 
    vedere il futuro. Come se per questo tempo sia già scritta da Dio la strada 
    da seguire. Fratello, sono sempre stato nelle mani di Dio e in questo 
    momento mi da molto di più di quello che mi aspettavo. Grazie mio Dio per 
    illuminare la mia vita. 
    …Rispondo alle due ultime tue lettere. 
    Dalla prima, molto profonda, 
    traggo queste riflessioni. Se la Giustizia, detta e scritta in tutte le 
    lingue, portasse al vero obiettivo per la quale è nata, e cioè costruire un 
    “uomo riabilitato”, sarebbe un sogno bellissimo. Però penso di essere un 
    piccolo seme che cresce e che darà pian piano dei frutti dagli insegnamenti 
    ricevuti. Mi rendo conto che troverò altre difficoltà (burocrazia, 
    punizione), ma se questo è vero, è anche vero che tutto passa. Uno, tre, 
    cinque anni e poi tutto passa. Quello che resta per sempre è l’uomo e quello 
    che è riuscito a fare durante quegli anni. E’ qui dove la meravigliosa opera 
    di Dio entra in azione, diversa da tutte le leggi degli uomini. Padre, 
    Figlio e Spirito Santo: che elevato al plurale e applicato a tutti gli 
    uomini danno un senso alle nostre vite e la libertà di spirito, corpo, 
    anima, mente. Oserei dire che Dio entra “irrompente” nel nostro mondo; non 
    guarda chi sei perché sa già chi sei; non chiede nulla in cambio. Perché Lui 
    sa tutto. Allora ben venga la Legge di Dio, il Suo vero e sovrano giudizio 
    così importante per noi uomini. Il resto passa, ma l’uomo resta con Dio. La 
    società ha bisogno di uomini anche se puniti. Se sono stati giudicati bene 
    dagli uomini.Per la tua seconda lettera sono molto 
    contento di scoprire una volta di più la tua vicinanza alla mia persona e 
    soprattutto il coraggio che mi dai per continuare questo cammino pieno di 
    nuove scoperte. Faccio un passo indietro nella mia 
    infanzia-adolescenza. Una sera non riuscivo a tornare a casa e ho dovuto 
    dormire all’aperto tutta la notte; ero stanco e sfinito; non sapevo cosa 
    fare e avevo una fame tremenda. C’era una chiesa aperta per la messa di 
    prima mattina; mi sono incamminato con coraggio; sapevo che avrei trovato il 
    caldo. Mi sono messo dietro un banco e mi sono lentamente addormentato. Mi 
    sveglia un prete che doveva celebrare la messa di mezzogiorno. Mi allunga 
    del pane e un po’ di latte e miele che avevano lì. Poi mi dice: «Quando 
    vuoi, la porta principale è sempre aperta». Fu una colazione che ancora oggi 
    ricordo come dolce, calda, sincera. Con questo racconto di vita voglio dire 
    che Dio è sempre stato presente nella mia vita, mi ha dotato di una rara 
    sensibilità. Da quel momento mi è nato il coraggio di continuare la vita 
    scegliendo sempre il bene, ma purtroppo sono caduto, alienato dai miei mali 
    interni. Ora sono pronto; non sono più piccolo, ho 43 anni con tante cose 
    belle conosciute. Dio è con me, il bene esce fuori e mi da un profondo 
    respiro. Ho capito come  il perdono devo accettarlo in tutte le sue forme 
    (chiedere, dare, ricevere) e presentarlo facendo il bene verso la tutta la 
    società. Aspetto, fratellone Augusto, che tutto esca come deve essere. Il 
    bene porta solo bene; nel mio caso aspetto di essere all’altezza. Sia 
    ringraziato Dio.
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