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Intervista
a DON AUGUSTO FONTANA
per TESI DI LAUREA “Parole concave per accogliere rinnovati orizzonti di
senso”
Sostenuta da CONTARDI MARIALUISA
presso la Facoltà di scienze
della formazione all’Università Cattolica di Piacenza.
Anno accademico
2005-2006
1.
Come è nata in Lei la
volontà di operare in carcere? Quando ha iniziato questo cammino di
educazione ai detenuti?
Mi hanno sempre impressionato le
contorsioniste cinesi del circo: corpi disarticolati da fare invidia alle
mie articolazioni legnose. E il pensiero va alla ginnastica preventiva
iniziata fin dagli anni della loro infanzia. Lì sta il segreto. Certi
movimenti sciolti nascono da lontano, da piccoli e progressivi preliminari
di adattamento. Così come certe scelte umane significative: difficile che
nascano all’improvviso. Hanno un background di destrutturazione e
ricostruzione culturale senza il quale non si può neppure sognare di
giungere a pensare e operare alcune scelte di vita. La cultura (o se vuoi la
spiritualità) del sociale sono sorte in me partecipando lentamente ai
comitati di gestione di quartiere, agli scioperi operai della mia gente, al
volontariato sulle ambulanze, al volontariato tra gli indigeni dell’Ecuador
e i contadini sem terra del Brasile, alla fondazione del locale
Tribunale per i diritti del malato, alla amministrazione di Case protette
per anziani, vivendo 26 anni come preteoperaio. Dopo tanti anni, la mente,
il cuore e le mani si rendono disponibili a disarticolarsi verso ogni
direzione dell’umanità dolente, quella che Gesù ci indica come uno dei
sacramenti visibili della sua presenza: «Ho avuto fame e mi avete dato da
mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete
ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e
siete venuti a trovarmi» (Matteo 25). Così, quando una mattina del 2000,
appena tornato dal Brasile, incontrai un amico che stava cercando un prete
per sostituire un cappellano in carcere, impossibilitato per motivi di
salute, non potei che rispondere «Eccomi».
2.
In quali reparti del
carcere svolge il suo lavoro? E concretamente cosa fa?
La Legge 354 del 1975 all’art. 78 prevede
le figure di Assistente Volontario, «persone idonee a frequentare gli
istituti penitenziari allo scopo di partecipare all'opera rivolta al
sostegno morale dei detenuti e al futuro reinserimento nella vita sociale.
Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e
ricreative dello istituto sotto la guida del direttore, il quale ne coordina
l'azione con quella di tutto il personale addetto al trattamento sociale per
l'affidamento in prova, per il regime di semilibertà e per l'assistenza ai
dimessi e alle loro famiglie». Io sono Assistente volontario assegnato
ad un Reparto di detenuti “protetti” della Casa Circondariale (in attesa di
giudizio, appellanti o con pene definitive inferiori ai 5 anni) e ad un
reparto sanitario della Casa Penale (detenuti definitivi con condanne oltre
i 5 anni). I detenuti “protetti” sono persone che avendo commesso reati di
pedofilia o violenza carnale devono essere tenuti separati, per loro
sicurezza, da altri detenuti comuni; anche nel crimine c’è una graduatoria
del disonore! I detenuti gravemente infermi o tetraparaplegici vengono
trasferiti al carcere di Parma in quanto specificamente strutturato e
finalizzato a erogare assistenza sanitaria e riabilitativa soprattutto nel
Centro Diagnostico Terapeutico e nella sezione Paraplegici. Concretamente
svolgo attività per 6 ore continuative al sabato, celebrando la Messa nei
due Reparti e utilizzando il tempo restante per colloqui richiesti dai
detenuti di tutto il carcere, visitando le persone detenute presso le loro
celle nei Reparti assegnatimi e incontrando gli educatori o il personale del
trattamento sociale per un utile scambio di valutazione sui percorsi singoli
o progettuali di socializzazione.
3.
Quali le difficoltà che ha
trovato ad inserirsi in un contesto simile?
Le difficoltà si iscrivono innanzitutto
nella ardua conciliazione delle due anime del sistema penitenziario italiano
di cui mi sia permesso citarne le colonne portanti così come emergono dal
DPR n. 230 del 2000:
Art. 1. Il trattamento
degli imputati sottoposti a misure privative della libertà consiste
nell'offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani,
culturali e professionali. Il trattamento rieducativo dei condannati e
degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di
modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle
relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva
partecipazione sociale.
Art. 2.
L'ordine e la disciplina negli istituti penitenziari garantiscono la
sicurezza che costituisce la condizione per la realizzazione delle finalità
del trattamento dei detenuti e degli internati.
La difficoltà si incunea, come ho detto,
nell’ardua conciliazione tra le “ragioni della custodia- sicurezza” (tra
l’altro nel Carcere di Parma esiste una Sezione separata per detenuti
sottoposti a regime di massima sicurezza detto “41 bis”) e le ragioni del
“trattamento rieducativo”; obiettivi che non confliggono per loro natura e
nelle intenzioni del legislatore, ma che nei fatti entrano spesso in rotta
di collisione; non sono pochi i problemi per chi agisce soprattutto
nell’ambito del trattamento rieducativo, ma anche tra quegli operatori della
sicurezza e custodia che sono più aperti al «processo di modificazione
delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonché delle relazioni
familiari e sociali». La carenza di organico del personale di custodia e
di trattamento costituisce la «madre di tutte le difficoltà» in quanto
innesca processi di limitazione operativa nella gestione prevalentemente
organizzata attorno alla sicurezza e alla burocratizzazione, senza parlare
dei processi di burn out del personale. Si tenga presente anche,
realisticamente, che le persone detenute (di cui il 60% stranieri) hanno
profili personologici molto complessi e critici, provenendo da vissuti
personali e sociali difficili, infanzie violate e adolescenze da strada;
persone portatrici di aspetti caratteriali e comportamentali che non
favoriscono certo la creazione di un clima di fiducia, di convivenza serena
e di felice esito.
4.
Quali le differenze fra
operare educativamente all’interno di una comunità ecclesiale rispetto ad
una struttura limitante come il carcere?
Il cuore e la biografia personale umana
costituiscono il primo ostacolo universale, presente ovunque e in tutti noi:
ogni proposta che “accarezza contropelo” il mantello del lupo, va incontro
al rischio preventivo del fallimento. Ogni educatore, predicatore,
catechista o profeta sa quanto scarto esista tra le proposte della coscienza
o della Parola e il lungo iter di convincimento dell’io. Quindi da tale
punto di vista posso dire che la fatica è pari in tutti gli ambienti. Chi
frequenta la comunità ecclesiale territoriale o parrocchiale si trova
normalmente libero da gravi pulsioni criminogene o da gravi reati contro la
legge e ciò costituirebbe una facilitata base di partenza per traghettarsi a
nuove spiagge di maturità crescente; ma ciò spesso non accade. Noi,
cristiani o cittadini medi e spesso mediocri, ci si fossilizza su un’etica
minimalista (non fare il grande male), ci si autoassolve su comportamenti
antievangelici e anticollettivi (evadere il fisco, perseguire ogni sorta di
furbizia sociale, inquinare l’ambiente, alzare i prezzi del commercio oltre
ogni decenza, tenere appartamenti sfitti, pagare in nero al limite dello
sfruttamento, essere opportunisti e carrieristi ad oltranza ecc) eppure di
lì non ci si schioda, nonostante anni di letture bibliche, catechesi e
celebrazioni. Insomma i conati della Parola restano lungamente in standby ad
attendere una qualche improvvisa e improbabile incrinatura nel sistema
ossificato della propria morale e religiosità consolidata. Non ci si
meravigli, dunque, della diffidenza e resistenza espressa da altri contesti
umani meno attrezzati dal punto di vista della formazione religiosa, morale
e di coscienza civile. La permanenza in carcere per un certo periodo di vita
permetterebbe a molti detenuti di trovare spazi di tempo di ascolto, di
lettura, di revisione critica, di scandaglio del proprio animo; tempo che
spesso la vita esterna non concede. Uno dei nostri obiettivi è costituito
dal convincere le persone detenute a trasfigurare in opportunità positiva la
maledizione della detenzione; ogni tanto propongo provocatoriamente di
trasformare la propria cella in “cella monastica”; così incoraggiamo ogni
attività di lettura, alfabetizzazione, catechesi biblica, preghiera. Quando
un uomo ha raggiunto il fondo del proprio degrado e prende coscienza della
propria povertà spirituale o esistenziale, può avere una chance in più nei
confronti di colui che, invece, si è creato un’immobile coscienza di
giustizia davanti a Dio e agli uomini e si rende pertanto impermeabile ad
ogni tentativo di “aggressione” della profezia della Parola.
5.
La scorsa volta mi ha detto
che “ la parola ha potenza se c’è interazione” ma a che tipo di interazione
si riferisce?
Se un uomo fosse un’ostrica e gli volessi
parlare, la prima cosa che dovrei fare sarebbe solleticargli i gangli di
apertura delle valve; e se fosse un riccio aggomitolato in difesa entro la
propria barriera spinosa dovrei porgergli odori e profumi che lo convincano
a distendersi e tornare aperto alla relazione. Le leggi della comunicazione
hanno un principio primo inaggirabile: l’emittente e il ricevente devono
essere sulla stessa lunghezza d’onda. Nella catechesi abbiamo fatto un
progresso; un tempo ci si preoccupava di insegnare bene i contenuti senza
badare tanto alla persona, poi si è passati a concepire la proposta di fede
come una risposta alle domande dell'uomo. Ma quali sono le domande dell'uomo
e, nel nostro caso, dell’uomo detenuto? È necessario comprenderle,
altrimenti finiamo per dare delle risposte a domande che non esistono. Il
nostro contesto culturale censura le domande o ubriaca al punto tale da
impedire che le domande profonde affiorino. Anche in carcere le prime
domande emergenti sono quelle che rispondono ai bisogni primari (sussidi,
sigarette, abiti, contatto con avvocati, familiari, magistrati, educatori…).
E’ giusto che ci poniamo a livello di quelle attese, che esprimono bisogni
di cura e tenerezza; e da lì partire per far affiorare le domande
“ulteriori”, quelle che giacciono inevase nella profondità dell’animo e che,
quando funziona la relazione, effettivamente affiorano. Nel contesto di
debolezza di pensiero, di riduzione della fede a una occasione
opportunistica per ottenere qualche beneficio, l'evangelizzazione si trova
davanti una strada preziosa: aiutare le persone che cercano senso alla loro
vita, facendosi voce critica nei confronti della struttura esistenziale di
ciascuno, facendosi interrogativo sulla vita. Far affiorare le domande prima
di dare risposte, perché dalle domande nasca un cammino di ricerca. Ogni
parola ha bisogno di un preventivo processo di inculturazione nella
situazione sociale, simbolica, esistenziale del destinatario. Non è semplice
adattamento esterno che, per rendere più attraente il messaggio, si limita a
coprirlo in modo decorativo con una vernice superficiale. Si tratta,
invece, della penetrazione del Vangelo negli strati più nascosti delle
persone, raggiungendoli in modo vitale, in profondità e fino alle radici
delle loro “culture”. Tale inculturazione, vista nell’ambito carcerario,
inizia ristrutturando “gli sguardi”. Chi varca la soglia del carcere per la
prima volta viene guardato comunque con sospetto: benché ancora presunto
innocente fino alla definitiva sentenza, è comunque al centro di
un’attenzione giudiziaria. C’è una vergogna famigliare da sostenere, un
pudore violato dall’articolo sui giornali, dal gossip di paese, dal
licenziamento da parte del datore di lavoro, dalla distanza emotiva degli
amici. Nasce l’autocoscienza - se colpevole - dell’impurità contratta e - se
innocente - la ribellione per il crollo dell’immagine di sé. Quando entra in
carcere un recidivo o un condannato definitivo, lo sguardo di tutti consegna
al soggetto il messaggio: «Sei un criminale; ben ti sta!». Il primo passo
della inculturazione della parola deve partire di qui: «Io ti guardo con uno
sguardo diverso; non mi interessa ciò che sei stato ma ciò che puoi essere o
sarai; non dunque la tua impurità ma la tua verginità; tu mi sei caro». La
parola se funzionerà, accadrà solo se funziona questo nuovo e diverso
guardarci negli occhi. La fecondità del rapporto bocca-orecchio è
condizionata dal rapporto occhio-occhio.
6.
L’interazione può divenire
relazione? Oppure si limita ad essere “conversazionalismo superficiale”?
Ogni relazione è connotata dal contesto
in cui accade. Il detenuto, innanzitutto, si trova in un contesto
relazionale di totale consegna della propria vita nelle mani altrui: non si
possiede più, è deprivato di tutto ciò che costituisce normalmente la vita e
le relazioni. Nascono due atteggiamenti: o stare al gioco o ribellarsi. La
maggioranza sta al gioco. La Legge 354/75 e la Legge 663/1986 (conosciuta
come “legge Gozzini”) hanno introdotto un meccanismo premiale che permette
al detenuto che si comporta bene, non riceve rapporti disciplinari, si rende
accattivante agli operatori che lo circondano, di ottenere sconti e
benefici: l'affidamento in prova al servizio sociale; la semilibertà; la
liberazione anticipata (90 giorni di riduzione pena per ogni anno espiato);
i permessi premio fino a 45 giorni in un anno; il lavoro esterno. E’ facile
dunque, e succede per la maggioranza, che esista una adesione - talora non
convinta ma esteriormente ineccepibile - alle regole della disciplina, della
convivenza e del trattamento. E ciò a scapito della sincerità verbale e
comportamentale. Il fenomeno della simulazione, esibizione e della
discrasia tra pensiero e linguaggio, tra reale progetto di vita e promesse,
sono frequenti. Forse anche umanamente e psicologicamente comprensibili.
Dunque i rapporti sono falsati all’origine, anche perché un vero rapporto
nasce in condizioni e circostanze paritarie. E’ dunque difficile, per
chiunque si accosti ad un detenuto, costruire un rapporto profondo e vero.
Normalmente “non si parla della corda a casa dell’impiccato”: nei nostri
colloqui le circostanze dei fatti e dei reati giungono tardive, incomplete,
freudianamente censurate o rimosse. Il successivo confronto tra i fascicoli
processuali e le storie di vita narrate fanno nascere una cruciale e
dolorosa domanda: «Chi ha ragione? L’inquirente, il giudice o l’imputato?».
Questa base “liquida” della relazione crea un’ulteriore circostanza ambigua
o equivoca. Occorre dunque molto tempo perché l’iniziale “conversazionalismo
superficiale” possa raggiungere lo stato di due anime trasparenti e gratuite
che hanno abbandonato l’uno la voglia di “conquistare una vita perduta” e
l’altro la voglia di “conquistarsi favori”. Tuttavia Gesù aveva paragonato
il Regno di Dio ad un seminatore che getta seme abbondantemente su ogni
angolo di terreno, sprecandolo senza preventive cernite o pregiudizi,
esponendosi al rischio del fallimento per presenza di rovi, sassi e sole
bruciante, ma anche aprendosi all’insperato esito di fruttificazioni «al
trenta, al sessanta e al cento per cento». Alcune verifiche accadono quando
un detenuto esce per fine pena e mantiene con noi contatti telefonici o
epistolari garantendoci che “tutto va bene” ed esprimendo quella amicale
memoria grata di momenti intensi. Una frase ritorna frequente: «Mi mancano
le nostre Messe». La Parola, dunque, deve essere potente nella sua generosa
inseminazione pur restando debole nelle sue rischiose stagioni.
7.
“La parola si fa
atteggiamento”. Ma attraverso quali mezzi si può vedere un cambiamento nella
personalità del detenuto? Intendo dire, attraverso quali mezzi la parola si
fa “leva” per elevare il detenuto dal suo status?
L’osservazione personologica effettuata
da psicologi, psichiatri e criminologi possiede gli strumenti adatti (anche
se non infallibili) per verificare il livello di coscienza che la persona
possiede circa la propria devianza sociale, il proprio reato, il danno alla
vittima. Si tratta di una diagnosi personologica a cui dovrebbe far seguito
un programma trattamentale che preveda un supporto psicologico per chi
affonda le radici della devianza nel male oscuro della psiche (pedofilia,
depressione, autolesionismo, dipendenze compulsive, aggressività patologiche
ecc) e un supporto sociale per chi affonda le radici nella terra bruciata
della carenza di protezioni economiche e relazionali (homeless, disoccupati
totali in età avanzata, senza-famiglia, stranieri clandestini ecc). La
comunità cristiana è presente, all’interno, prevalentemente con l’offerta
religiosa in tutte le sue valenze catechistiche, celebrative e
assistenziali; ma tutti abbiamo l’impressione di una inadeguatezza di
risposte ai bisogni. Ho già detto che il livello verbale è soggetto ai
limiti dell’ambiguità ed equivocità provenienti dall’animo umano ed
accentuate dalle particolari circostanze dello stato di detenzione. La
persona detenuta può essere messa in grado di misurarsi con la voglia di
cambiare e di dimostrarlo, soprattutto accedendo alle misure alternative al
carcere o premiali (arresti e detenzione domiciliare, affido sociale,
permessi premio, semilibertà ecc). La parola di operatori e volontari e
quella dei detenuti si “invera” creando o offrendo occasioni, ovviamente
protette e accudite, di effettivo recupero della capacità di convivenza,
collaborazione, amore, rispetto, legalità, assunzione di responsabilità. A
Parma esistono cooperative sociali laiche, che offrono lavoro sia sotto
forma di “borsa lavoro” che per lavori in regime di semilibertà; sono sorte
associazioni cattoliche (S.Cristoforo, S.Giuseppe) che offrono accoglienza e
ospitalità per favorire la fruizione dei benefici di legge e di regime
alternativo; Caritas-carcere e l’Associazione “Per ricominciare” gestiscono
appartamenti e personale volontario per l’accoglienza sia dei detenuti in
permesso premio che dei familiari in visita e provenienti da lunghe
distanze. Sono “eventi” che danno «forza» alla parola perché chi vuole
misurarsi ne abbia l’opportunità e perché la parola della società
territoriale e della comunità cristiana locale diventi credibile e
affidabile.
8.
Chi lavora con i detenuti
deve avere una cultura diversa da quella del pregiudizio.
Ma il luogo
comune è l’esatto opposto. “Chi sbaglia paga”. Come affrontare nella società
un tema difficile come la rieducazione in carcere?
Mi sia concesso riferirmi a un documento
della Caritas Italiana su giustizia e carcere (Liberare la pena, ed.
EDB 2004). Fin dall’inizio il documento testimonia una nuova prospettiva
della pastorale carceraria che dovrebbe diventare anche nuova coscienza
ecclesiale nei confronti della devianza e dei suoi riflessi punitivi.
L’introduzione titola significativamente: "Dal visitare al liberare: il
segno alternativo". Dopo aver elencato i multiformi servizi che le
comunità cristiane hanno sviluppato in questi anni, il documento evidenzia
che da tale impegno "si evince una maggiore capacità di visitare i
detenuti più che uno sforzo di liberarli dalla necessità del carcere». E
chiede, di conseguenza, che l’impegno pedagogico e culturale della comunità
non si appiattisca sul dibattito odierno che parla sempre più di certezza
della pena, di sicurezza e di costruzioni di nuove carceri. L’ottica è nuova
a partire dalla domanda: "Davvero al male si può rispondere solo con il
male?". È il completo ribaltamento del concetto della “giustizia
retributiva”: "Resta diffusa una radicata sensazione che il carcere sia
lo strumento privilegiato per fare giustizia: riusciamo a misurare la
gravità dell’azione commessa prevalentemente attraverso gli anni di carcere
inflitti in sentenza ". Certo, il documento afferma che "non sarebbe
giusto, specie per i credenti, che una società non dichiarasse il male
compiuto e non ne riconoscesse, dove riesce, le cause e le
responsabilità…Bisogna però chiedersi se attraverso la privazione della
libertà si possa educare o se l’educazione non sia innanzi tutto
sprigionamento e dono di totale libertà… Perché la libertà abbia questo
potere di educare, va intesa come modo per stare in rapporto con gli altri e
non come via di separazione da essi; una libertà intesa come sistema di
legami (e non come deprivazione da essi) è una libertà che dona diritti e
richiama doveri. Contrariamente, la detenzione deresponsabilizza i soggetti
sottoponendoli a una deprivazione della libertà e dei suoi legami". Il
documento insiste su questa nuova visione: "Un altro problema che ci
dobbiamo porre è se subendo un trattamento disumano (come spesso capita in
carcere) si possa costruire una motivazione per appartenere in modo
costruttivo allo stesso sistema che sta infliggendo quel trattamento o se
non siano altre le vie per costruire opportunità di partecipazione al bene
comune da parte di chi è stato autore di reato." A supporto di
quest’affermazione viene citata l’affermazione di Giovanni Paolo II: "I
dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva
in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza.
Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che
tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento…". E il documento lancia
la prospettiva di una “giustizia riparativa” ricordando che in diversi paesi
sono in atto forme di pena che non usano il carcere come primo strumento
soprattutto per i reati minori e con soggetti non socialmente pericolosi. Si
chiamano pene alternative alle detenzione e prevedono la sanzione
amministrativa realmente riscossa, l’obbligo di lavoro socialmente utile, la
“messa in prova”, l’introduzione della “mediazione penale” che è un
procedimento di risoluzione dei conflitti che coinvolge un terzo neutrale e
dove sia la vittima sia l’agente del reato hanno la possibilità di
partecipare attivamente, e a titolo volontario, alla risoluzione dei
problemi nati dal reato e all’elaborazione di un’attività riparativa,
materiale o simbolica.
Ho parlato della legge Gozzini, quella legge che fa tanto discutere quando
un detenuto in regime alternativo reitera un reato o scappa: a fronte dell’
1% di violazioni, dal 1975 ad oggi oltre mezzo milione (una media di 20 mila
persone l'anno) di detenuti si sono reinseriti tramite questa gradualità
della pena nella società. Nell’anno 2004, su oltre 50.000 persone che hanno
usufruito della legge Gozzini, "solo" 104 (cioè lo 0,21%) hanno commesso un
nuovo reato (in molti casi assolutamente non grave). Il che non significa
non porsi il problema di fare tutto quanto possibile per evitare anche quei
pochi casi. La soluzione non è certo quella di modificare la legge come
chiedono in molti, che è tutt’altro che permissiva (circa il 70 % delle
domande di benefici viene respinta dai magistrati di sorveglianza), ma di
fornire gli strumenti necessari e organici sufficienti agli operatori
penitenziari, ai magistrati di Sorveglianza, agli addetti al reinserimento.
E, invece, in presenza di una popolazione carceraria che ha superato i
58.000 detenuti, vi sono meno di 1.000 educatori (A Parma per 630 detenuti
sono previsti in organico 8 educatori; di fatto ne sono assegnati 1 a tempo
indeterminato e 2 a tempo determinato), per non parlare degli psicologi e
degli assistenti sociali. Eppure il loro compito è delicatissimo: verificare
la non pericolosità sociale del singolo detenuto, l’effettivo percorso di
recupero, i progressi compiuti nel corso del trattamento, il graduale
reinserimento sociale, la partecipazione all’opera di rieducazione e
stabilire se il suo "ravvedimento" può essere considerato "sicuro".
È del 1974 una pronuncia della Corte Costituzionale che ha imposto al
legislatore una normativa che riconoscesse "il diritto per il condannato
alla verifica se la pena già espiata abbia o meno assolto positivamente il
suo fine rieducativo… In caso positivo - hanno affermato i Giudici
Costituzionali - l’ulteriore espiazione della pena non deve aver luogo".
La Parola irrompe nel cuore delle singole persone con la debolezza e la
forza del paradosso, della critica profetica, della sua capacità di
convincere, di stupire; ma deve essere rivolta anche alle strutture sociali
che, esse pure, devono convertirsi. La Parola evangelizzante è tale quando,
simultaneamente, converte i cuori e la politica, chi la pronuncia e chi la
ascolta, la persona singola nella sua unicità e responsabilità, ma anche la
comunità ecclesiale o sociale che sia.
9.
Lei mi ha detto:” Bisogna
lavorare sui punti molli della persona”. Cosa intende? Si può parlare di
una pedagogia della tenerezza?
«Che le pareti delle galere possano
animarsi di figure e colori, rinunciando al culto della bruttezza che vi
vige per ufficio, è un bel pensiero, e qua e là si è tradotto nei fatti. Non
so se la bellezza salverà il mondo: so per certo che la bruttezza lo
perderà. Nè si può immaginare che la bellezza riscatti la galera: certo la
bruttezza la danna. La bellezza e la musica. La galera è fragore di ferri
battuti e stridore di denti. La musica entra con ali d'angeli».(Adriano
Sofri - Panorama 01/07/04). Altrettanto vorrei dire della tenerezza: non so
se la tenerezza riscatterà la galera, so per certo che la durezza
disciplinare la congelerà nella sua infeconda dannazione. E così vorrei dire
della poesia, della musica, del teatro. E, perché no?, delle tecniche yoga.
La Dott.ssa Kiran Bedi, direttrice del carcere di Tihar a Nuova Delhi ha
pubblicato, nel libro “LA COSCIENZA DI SÉ. Le carceri trasformate. Il
crollo della recidiva” (Ed Giuffrè, Milano, 2001), una dettagliata
documentazione del metodo che ha preso il suo nome; una sua personale
rivoluzione iniziata negli anni ’90 applicando la tecnica di meditazione
olistica “vipassiana”, ora diffusa negli Stati Uniti d’America, Nuova
Zelanda, Regno Unito, Australia.
I noti problemi di sicurezza e di organizzazione del lavoro degli agenti non
coltivano progettualità indirizzate a esposizioni interne d’arte, a
esperimenti di espressività creativa, a forum di ascolto musicale e
audiovisivo. Eventi, questi, che accadono saltuariamente e per pochi.
Restano prevalenti le perquisizioni in cella, i controlli ambientali e
personali, le celle di isolamento, le commissioni e i rapporti disciplinari,
le risse, l’autolesionismo.
Ma che cos'è la tenerezza? E’ uno stile di vita e di rapporto fatto di
dolcezza, benevolenza, delicatezza, attenzione, simpatia, comprensione,
capacità di commuoversi. La tenerezza non va confusa con le sue goffe e
mollicce sdolcinature. Uno dei modi più rozzi per difendersi dalla sfida
della tenerezza è quello di liquidarla come «cosa da donne» o come principio
di esenzione dalla responsabilità. Non intendo accantonare “il
principio-responsabilità” in favore della tenerezza; tuttavia, poiché il
versante della responsabilità è già ampiamente rappresentato in una
istituzione totalizzante come il carcere (o in una visione tradizionale del
cattolicesimo) e poiché il “principio- tenerezza”resta un pensiero di
minoranza, è bene enfatizzarne l’assenza, la necessità, il ruolo. Una certa
persistente impenetrabilità tra tenerezza e giustizia, è uno dei sintomi
della frattura persistente nella nostra cultura e prassi sociale.
Noi facciamo la nostra parte evangelizzando un Dio del perdono e della
resurrezione dagli inferi anziché un Dio inquirente e giudice. Sperando così
anche di andare a toccare quelle parti molli del temperamento e degli
affetti, della fiducia in sé e negli altri, della speranza e resistenza
contro ogni delusione. La tenerezza è connotazione femminile e maschile; sì,
anche maschile se le figure maschili riescono a far affiorare il volto anche
femminile della loro dimensione interiore. La carenza di figure femminili in
un ambiente prevalentemente maschile, non aiuta. I colloqui con i familiari
(ma gli stranieri hanno familiari a disposizione?) sono fondamentali e
previsti per legge come diritto e progetto. Il divieto di poter avere
normali rapporti sessuali con le proprie compagne fa scivolare le persone
verso una silente e diffusa omosessualità. In carcere manca tenerezza in
tutti i versanti e, quando c’è, la sua parodia è devastante. Manca una vera
“terapia della tenerezza” che si rivolga al bambino che c’è sempre in noi.
Di quando in quando regalo (a chi sa leggere!) “Il Piccolo Principe” di
Saint-Exupery, “L’uomo che piantava gli alberi” di J.Giono, “Il Gabbiano
Jonathan Livingston” di R. Bach.
Oltre, ovviamente, al
Vangelo, un racconto di vita innocente e straordinaria. Saint-Exupery, in un
suo scritto (Lettera ad un ostaggio) osserva: «Poiché il deserto non
offre nessuna ricchezza tangibile, poiché non c’è nulla da vedere né da
sentire nel deserto, si è costretti a riconoscere che l’uomo è animato
soprattutto da sollecitazioni invisibili. L’uomo è governato dallo spirito.
Io valgo, nel deserto, quanto valgono le mie divinità».
Nel deserto non possiamo sfuggire a noi stessi. Nella crisi possiamo
scoprire noi stessi nel nostro limite, ma anche nella nostra capacità di
trasformare la vita in un cantiere permanente. Le crisi si rivelano come
momenti in cui attuare le riparazioni e i restauri necessari. E’ in quei
momenti che la crosta dell’adulto forte o criminale si può sgretolare e far
apparire dentro il bambino, il principe che è in lui. Nelle persone detenute
che accettano di lasciarsi andare ho scoperto a volte il «bambino interiore»
timoroso e regale. Quello non ancora guastato dalla follia criminogena o
dalle uniformi. Il «bambino interiore» è un po’ anarchico, ma anche curioso
e resistente ad ogni stupidità, malattia virale infettante. «Se non
diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli», si legge nel
Nuovo Testamento, e ciò vuol dire tornare alla sincerità e alla profondità
dell’animo infantile e alla filialità evangelica.
10.
Un bel ricordo del
carcere………
Quando ho potuto invitare a
pranzo a casa mia un detenuto e i suoi familiari. Ogni volta che un
detenuto, uscito per fine pena, mi gratifica della sua amicizia e delle
buone notizie della sua famiglia, del suo lavoro e della sua recuperata
onestà sociale. Fortunatamente non sono pochi.
11.
Un cattivo ricordo del
carcere……
Non uno, ma più. Quando giunge
notizia che un detenuto si è impiccato (oltre 35 in Italia nei primo 10 mesi
del 2005; a Parma: 5 in 5 anni). Quando tre volontari splendidi sono
“scoppiati” e hanno abbandonato, forse anche per sfinimento contro il muro
di gomma dell’Istituzione. Quando ho rivisto in carcere volti di uomini che
avrei volentieri incontrato in piazza o al supermercato dopo una libertà
acquistata e poi riperduta a caro prezzo. Quando è corsa voce che un
detenuto, su cui avevo scommesso, è scappato o si è messo nei guai durante
un permesso premio. Quando il carcere mi telefona che deve essere scarcerato
entro due ore un detenuto in carrozzina, malato, straniero, e non so dove
accoglierlo né tanto meno quale futuro garantirgli. Quando saluto un “nuovo
giunto” e mi appare il dolente fantasma di un bimbo violato, di una donna
stuprata, di una vita troncata.
12.
Una questione spinosa che
riguarda il carcere è la difficoltà del lavoro d’equipe. Quanto è ostacolato
nel Suo lavoro? Quanto è “tagliato fuori”? Come reagisce a tutto ciò?
Il carcere, ultimamente e finalmente, ha
accelerato sul processo di lavoro di rete con il volontariato. Ha costituito
Convenzioni con l’Assessorato competente del Comune; anche se le
dichiarazioni di intenti faticano poi a trovare concretezza. Sono segnali
forti e positivi di integrazione tra gli ambiti propri degli operatori
professionali interni e quelli degli operatori provenienti o operanti nel
territorio. La Diocesi ha costituito la Consulta pastorale del carcere,
mediante la quale il volontariato ecclesiale ha cercato linee e
comportamenti unitari pur nella valorizzazione delle differenze. La Diocesi
ha stanziato circa 15.000,00 euro all’anno per le spese del volontariato a
favore dei detenuti. I contatti tra alcuni volontari e l’Ufficio educatori
sono più frequenti, sereni e collaborativi. Senza negare che le proposte
emergenti ed inizialmente accolte, al momento della loro attuazione trovano
incomprensibili ostacoli che le neutralizzano sfiancando le persone che
avevano concertato con passione. Ogni volontario viene annualmente
autorizzato dalla Direzione che in qualsiasi momento può sfiduciare il
volontario: posizione, dunque, in permanente precario equilibrio
comprensibilmente delicato e sofferto.
13.
Il carcere è il luogo della
disumanizzazione, la persona è “cosalizzata” . Qual è il suo lavoro sui
sentimenti dei detenuti?
Il primo approccio è «tentare di
compatire, cum-patere, con-soffrire». Ha scritto un teologo: «Per
Gesù la cosa più grande non è quella di agire a favore nostro; la
cosa più grande è patire con noi e per noi». Il secondo
approccio è «cercare di avvolgere in fasce» che è un gesto materno/paterno.
E’ il gesto del “prendersi cura” del loro sentimento di aggressività e
ribellione, dell’abbracciare gli sfinimenti, dell’accarezzare le solitudini,
del dedicarsi ai particolari del loro volto e nome e storia, del non far
mancare il necessario e oltre il necessario. Rappresenta simbolicamente ogni
attenzione gratuita che rivolgiamo ai detenuti, a chi soprattutto non ce la
fa, ansima, ha perso speranze e fiducia, è fuori circuito. Ma è anche un
gesto che descrive Dio: noi stessi siamo stati avvolti, nei momenti di
debolezza, dalle mani perdonanti di Cristo. E quante volte siamo stati
avvolti dalla sollecitudine premurosa dei fratelli e delle sorelle.
«Avvolgere in fasce» è una vera “parabola” efficace e parlante di Dio, con
molte affinità e analogie con il nostro servizio pastorale e volontario. Su
Gesù, per il quale non c’era posto nella città comune, veglia premurosa la
custodia di Maria, la quale, scrive Luca, «diede alla luce il suo figlio
primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia» (Lc
2,7). L’angelo offre come “segno” ai pastori proprio quella fasciatura: «Questo
per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in
una mangiatoia» (Lc 2,12). Luca è talmente affascinato dal gesto
dell’avvolgere in fasce che lo ricorda anche nella prassi curativa del buon
samaritano che si avvicina all’uomo vittima di un’aggressione e «n'ebbe
compassione. Gli si fece vicino, gli avvolse in fasce le ferite,
versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra la sua cavalcatura, lo portò a
una locanda e si prese cura di lui» (Luca 10, 34). Se avesse potuto, il
samaritano avrebbe fasciato anche le ferite aperte nella vita sgangherata
degli aggressori di quell’uomo, proprio come fa Dio che «Risana i cuori
affranti e fascia le loro ferite» (Salmo 146). Luca insiste.
Anche il cadavere inerte di Gesù viene avvolto in fasce: «Giuseppe di
Arimatea calò il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo
e lo depose in una tomba» (Luca 23,53). In altre parole: le “fasce”
delle narrazioni evangeliche sono – certo - pannolini, bende, lenzuola,
stracci della vita quotidiana. Ma assumono anche un significato simbolico
molto denso e suggestivo. Sono la spia di un messaggio che va oltre
l’apparenza esteriore.
14.
Se è vero che noi esistiamo
perché esiste “l’Altro” e se è vero che un rapporto educativo si basa su un
continuo dare/ ricevere Lei cosa ha ricevuto gratuitamente dai detenuti?
Quali modifiche ha portato e continua a portarLe questa sua esperienza di
lavoro in carcere?
La risposta a questa domanda e la conclusione dell’intervista la lascio al
carteggio di un detenuto:
«……..E’ molto duro essere in carcere.
Cerco giorno dopo giorno di capire me stesso, di capire il perché di questa
situazione. I cambiamenti li sento dentro la mia anima. Ho, come tutti,
tanti problemi. Li affronto con serenità. Se posso fare qualcosa bene,
altrimenti mi riprendo pensando “Pazienza!”. Prima devo cercare di cambiare
me stesso: questa è la mia prima regola: partire da me stesso. Fuori avevo
perso la mia personalità, non mi volevo bene, mi autodistruggevo. Dicevo
sempre di sì pur di far contenti gli altri, senza rendermi conto di nulla.
Ero giù nello spirito. Pian piano le racconterò la causa di tutto questo
malessere. Per ora le trascrivo una preghiera che faccio sempre da quando ho
frequentato gli alcolisti anonimi: Signore concedimi la serenità di
accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle che
posso e la saggezza di conoscere la differenza.….
………grazie per aver risposto alla mia
lettera. Sono molto felice di aver trovato un fratello e come fratello ti
ringrazio. Sai, capirsi con l’anima per me è molto importante. Io non sono
riuscito fin da piccolo a parlare apertamente dei miei dubbi. Inizio da
quando ero piccolo perché mi sono posto tanti interrogativi: per esempio mi
chiedevo come mai papà non veniva mai a scuola. Sono dubbi apparentemente
leggeri, ma che pesavano come macigni nella mia vita da bambino. Quando sono
arrivato a 12-13 anni ho cercato di avere una conversazione con lui, mio
padre, per dirgli quello che stavo passando un brutto momento e che volevo
cambiare il mio comportamento. La prima volta che ho preso coraggio e ho
chiesto aiuto mi sono sentito dire che io non ero suo figlio e che lui aveva
dato solo il cognome. Che amarezza a quell’età. Mi sono sentito solo, solo.
E’ stata dura. Ma ora ho capito che solo io sono in grado di cambiare tutto
partendo dalla radice. Ho, dal profondo di me stesso, un futuro pieno di
luce. Lascio la finestra e la porta aperta perché venga la luce della
speranza.
……………..Riprendo la lettera precedente
nella quale ti ho parlato del mio passato che non posso cambiare. Posso solo
dargli un senso di esperienza di vita e non solo negativa, per il mio
futuro. Anzi mi aiuta ad essere un uomo completo. Sai fratello: il carcere
per me non è una punizione. Mi fa capire che avevo perso la strada ed ora mi
dice: fermati, rifletti, chiedi aiuto e ritroverai la strada giusta.
……………Questa notte mi sono svegliato alle
2,30 e mi sono messo a riflettere fino alle 5,00. Più o meno la mia
riflessione era sul fatto di fare un elenco di tutte le persone a cui ho
fatto del male e come dal profondo di me stesso faccio ammenda verso tutti
loro. Io personalmente mi trovo con la coscienza del pentimento. Vorrei
dirlo di cuore a tutte loro, ma – data la mia situazione – avvicinarmi a
loro potrebbe causare malessere; è solo per questo che mi tengo dentro il
mio pentimento. Chiedo davanti a Dio e dico: Perdonatemi tutti. Sai,
fratello: è molto rassicurante per l’anima trovare questo sincero
pentimento. Mi sento leggero dentro.
….Sabato scorso a Messa è stato tutto
molto bello, un po’ diverso dal solito per il modo di sentire la Messa; mi
sono sentito particolarmente preso. Posso dire che in tutti i miei anni
questo sabato rimarrà per sempre nella mia mente, un dolce ricordo per gli
anni avvenire. Potrò raccontare ai miei nipoti, se ne avrò, più o meno così:
«Un bellissimo giorno di maggio ho raccolto un piccolo seme
nella mia anima e nel mio
spirito e ho iniziato a coltivarlo. Ciò che sognavo di essere oggi».
Grazie fratello. Mi parli della lettera
di Paolo ai Romani 8, 28: “Dio fa tendere ogni cosa al bene”. Questo è vero;
facendo un’analisi della mia vita ho sempre cercato di essere nel giusto, ma
purtroppo i disagi da me sofferti non mi hanno portato a vedere chiaro
quello che pian piano mi consumava. Con quella verità scoperta a 13 anni,
dopo anni sono riuscito a parlare con mia madre. Nel 1983-84, quando arrivai
in Italia, con molta calma e comprensione ho chiesto: «Mamma, chi è mio
padre?». Mi rispose che non poteva dirmelo perché neppure lei lo sapeva, era
stata ingannata da una persona che aveva lasciato subito dopo la mia
nascita. La capii, le diedi un bacio e la consolai. Dopo tutto un figlio non
può giudicare un genitore, ma deve solo capirlo e dargli il meglio perché la
sua sofferenza si spenga. Così fino ad oggi siamo stati molto affiatati.
Caro fratello, mi fa molto bene scriverti questo; per me è la forma di
sentirmi più maturo. Devo solo pregare per accettare con più forza il
disagio di una vita passata e darle un senso buono per me e per tutti quelli
che mi sono vicini.
……….Mi sono svegliato alle 5.00 e ho
fatto una preghiera per tutti. Poi mi sono messo a pensare su di me anche
alla luce della Parola che avevamo ascoltato sabato(Giovanni 15, 1-13): «Io
sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non
porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché
porti più frutto…». Io sono stato “potato”. Grazie a Dio nostro Signore
posso ancora dare frutti, aver trovato la fede, pensare che dentro di me le
foglie erano secche e da buttare. C’era qualcosa che mi attendeva: che
trovare la fede, che un Signore nostro Dio ci da la fede e la speranza, che
posso dare ancora buoni frutti: tutto questo è meraviglioso e riesce a
strapparti un timido sorriso che ti fa viaggiare, immaginare un sole che con
la sua luce fa crescere i vigneti. E io sono lì, potato, pieno di speranza,
pronto a dare nuovi frutti. Nel silenzio penso e dico: «Grazie Signore per
tutta la gioia che mi dai».…(narra i particolari e le circostanze che lo
hanno portato all’arresto)……………..Mi sento male, fratello, per come possa
esistere tanta incomprensione e nel vedere che il mondo ti sta crollando
addosso e non sei capace di reagire, di dire “Basta! Basta!” né una sola
persona che ti possa sentire a tu per tu.. Adesso, dopo tanta sofferenza,
c’è il mio risveglio spirituale dell’anima che mi fa ritornare ad essere
l’uomo dei buoni principi. Ho sempre lottato per esserlo nel mio piccolo.
Ho mantenuto, ma poi ho perso la strada della fede. Ho sopportato ma il mio
buon cuore affiora ancora in questo momento. Dio nostro Signore mi ha messo
accanto un fratello che mi fa ritrovare e accrescere la mia stabilità in
tutti i sensi. Fratello, se ho commesso un errore nella mia vita mi sento
pentito. Dio saprà perdonarmi. Quest’uomo umilmente chiede solo di non
essere più castigato. Dio mi da conforto. Sento nel profondo del mio animo
che è stata tutta una misera povertà dell’anima. Ora sono disposto
spiritualmente a non lasciarla più impoverire. Il Signore sia con noi.
……Grazie Signore per questa esistenza
nuova. Grazie Signore perché giorno dopo giorno mi fai non aver fretta.
Grazie Signore per farmi accettare tutti i problemi anche se non è facile.
Sai fratello quanto bene, bellezza,
amore, capacità di capire e ascoltare c’è dentro di noi. Io purtroppo tutto
questo l’ho affogato nell’alcool. Ringrazio Dio di averti messo sulla mia
strada; è così faticoso, ma ti da la speranza di vivere ogni minimo respiro
di vita, il dono di conoscere la vera libertà dello spirito.
………Sai, fratello, sabato scorso pensavo
al colloquio che abbiamo avuto e una delle cose che mi è rimasta impressa è
quando ti ho detto che per me sei un fratello spirituale, uno psicologo, un
educatore, persino un ex alcolista, cioè tutto. E’ meraviglioso avere un
fratello come amico. Parlare con te su cosa mi è successo, cosa ho
riflettuto, come intendo costruire il futuro è come rincontrare me stesso.
Sono dell’idea che come persona bisogna fermarsi sempre a guardare cosa ti
succede intorno. Per poi continuare avanti. Solo così riesci a mantenere
una strada serena.. Personalmente mi ritengo baciato da Dio perché pur
trovandomi in questo momento così difficile e di sofferenza, sono riuscito a
portare serenità a calma ai miei familiari. Parlando con mia madre ieri mi
ha detto: «Ti trovo cambiato, sereno e la tua voce è tornata con lo stesso
tono di prima». Le ho risposto: «Mamma, sapessi quanto malessere mi sono
tolto da dentro di me». Poi ho continuato a parlare di altro come se piano
piano entrassi in una nuova fase. Tutto viene ampliato in una nuova forma di
vedere il futuro. Come se per questo tempo sia già scritta da Dio la strada
da seguire. Fratello, sono sempre stato nelle mani di Dio e in questo
momento mi da molto di più di quello che mi aspettavo. Grazie mio Dio per
illuminare la mia vita.
…Rispondo alle due ultime tue lettere.
Dalla prima, molto profonda,
traggo queste riflessioni. Se la Giustizia, detta e scritta in tutte le
lingue, portasse al vero obiettivo per la quale è nata, e cioè costruire un
“uomo riabilitato”, sarebbe un sogno bellissimo. Però penso di essere un
piccolo seme che cresce e che darà pian piano dei frutti dagli insegnamenti
ricevuti. Mi rendo conto che troverò altre difficoltà (burocrazia,
punizione), ma se questo è vero, è anche vero che tutto passa. Uno, tre,
cinque anni e poi tutto passa. Quello che resta per sempre è l’uomo e quello
che è riuscito a fare durante quegli anni. E’ qui dove la meravigliosa opera
di Dio entra in azione, diversa da tutte le leggi degli uomini. Padre,
Figlio e Spirito Santo: che elevato al plurale e applicato a tutti gli
uomini danno un senso alle nostre vite e la libertà di spirito, corpo,
anima, mente. Oserei dire che Dio entra “irrompente” nel nostro mondo; non
guarda chi sei perché sa già chi sei; non chiede nulla in cambio. Perché Lui
sa tutto. Allora ben venga la Legge di Dio, il Suo vero e sovrano giudizio
così importante per noi uomini. Il resto passa, ma l’uomo resta con Dio. La
società ha bisogno di uomini anche se puniti. Se sono stati giudicati bene
dagli uomini.
Per la tua seconda lettera sono molto
contento di scoprire una volta di più la tua vicinanza alla mia persona e
soprattutto il coraggio che mi dai per continuare questo cammino pieno di
nuove scoperte. Faccio un passo indietro nella mia
infanzia-adolescenza. Una sera non riuscivo a tornare a casa e ho dovuto
dormire all’aperto tutta la notte; ero stanco e sfinito; non sapevo cosa
fare e avevo una fame tremenda. C’era una chiesa aperta per la messa di
prima mattina; mi sono incamminato con coraggio; sapevo che avrei trovato il
caldo. Mi sono messo dietro un banco e mi sono lentamente addormentato. Mi
sveglia un prete che doveva celebrare la messa di mezzogiorno. Mi allunga
del pane e un po’ di latte e miele che avevano lì. Poi mi dice: «Quando
vuoi, la porta principale è sempre aperta». Fu una colazione che ancora oggi
ricordo come dolce, calda, sincera. Con questo racconto di vita voglio dire
che Dio è sempre stato presente nella mia vita, mi ha dotato di una rara
sensibilità. Da quel momento mi è nato il coraggio di continuare la vita
scegliendo sempre il bene, ma purtroppo sono caduto, alienato dai miei mali
interni. Ora sono pronto; non sono più piccolo, ho 43 anni con tante cose
belle conosciute. Dio è con me, il bene esce fuori e mi da un profondo
respiro. Ho capito come il perdono devo accettarlo in tutte le sue forme
(chiedere, dare, ricevere) e presentarlo facendo il bene verso la tutta la
società. Aspetto, fratellone Augusto, che tutto esca come deve essere. Il
bene porta solo bene; nel mio caso aspetto di essere all’altezza. Sia
ringraziato Dio.
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